Memorie scolpite nella pietra
12 Settembre 2021
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Memorie scolpite nella pietra

Quando vado da mio padre al cimitero, bambini in visita non ne incontro.

Eppure io la mia Spoon River l’ho vissuta fin da piccola, allorché con nonna si andava al camposanto per portare un omaggio ai cari defunti e lì nonna, fermandosi davanti a talune delle lapidi, mi spiegava con parole cadenzate il mistero che si nascondeva dietro le date di nascita e di morte incise sulle epigrafi: il notabile del paese e la sua sposa “forestiera”, l’emigrato che aveva fatto fortuna e quello che tornò dall’America con la schiena piegata dal troppo lavoro, la donna che aveva avuto dieci figli e quella che non ne ebbe affatto – ed era bellissima!-, il calzolaio dai mille ingegni, il falegname artista, il mezzadro infaticabile, il marito esemplare, il bambino che non riuscì a guarire neanche a Napoli, i furori matti della vita, la strettezza inevitabile della malattia. Io ascoltavo incantata, perché nonna, che sapeva raccontar-cantando come un aedo, mi avvolgeva nelle spire della sua narrazione, mi presentava la morte non quale evento spaventoso per soli adulti, ma conclusione necessaria della vita, per triste che sia, e mi istruiva a pensare ai defunti non come a coloro che per sempre non servono più, bensì ad uomini nella memoria dei quali riconoscere il senso e il non senso, la follia, la banalità, l’amarezza e gli sprazzi di gioia, la conclusa brevità di ogni vita, che fu o che è.

Forse anche per via di questo ammaestramento infantile adoro Ugo Foscolo, Edgar Lee Masters, Salvatore Satta, del quale ho riletto da poco il romanzo Il giorno del giudizio, spinta dal desiderio di qualcosa di vero, severo finanche, e nel contempo struggente e poetico, come solo il dialogo coi defunti nutrito dalla rievocazione sognante di quel che furono da vivi può essere.

Salvatore Satta, eccellente giurista italiano del secolo scorso, di origine nuorese, coltivò quasi nascostamente la passione per la narrazione letteraria, che sfociò nel manoscritto del suo unico romanzo, Il giorno del giudizio appunto, edito postumo per la prima volta nel 1977, probabilmente contro le originarie intenzioni dell’autore, che doveva considerare queste sue pagine una velleità o un tradimento al rigore dello studioso di diritto, tanto da affermare in uno dei primi capitoli del romanzo: “Scrivo queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte…”.

Il romanzo, pubblicato per volontà degli eredi di Satta, è invece prova di una finissima ispirazione letteraria: trascinante fin nella struttura, che alterna la voce assolo del narratore-autore a quella dei tanti personaggi che ne affollano la memoria, chiaro e consequenziale nel linguaggio come dovrebbe essere il parlare di ogni onesto cultore del diritto, metafisico nella proposizione di un perenne infinito a mezzo del ricordo di quei segmenti di finito che vanno dalla nascita alla morte dei suoi attori; teso nel tono, mai retorico, Il giorno del giudizio non ha nulla da invidiare a grandi romanzi come Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e I Viceré di De Roberto; anzi vanta, a mio modesto avviso, un di più di autenticità, di schiettezza spirituale.

Ambientato a Nuoro tra fine Ottocento ed inizio Novecento, il romanzo si svolge a partire dal cimitero della città dove Satta si trova o immagina di trovarsi; lì, davanti alle tombe delle persone che ha conosciuto in un passato lontano o delle quali solo ha sentito parlare, ma che insomma in qualche modo hanno fatto parte della sua vita, si animano i suoi ricordi. I morti suscitati nella memoria di Satta diventano altrettanti personaggi nella sua narrazione: Satta ne ripercorre le storie, la nascita, il mestiere, l’indole, le manie, i vizi, gli ideali, la malattia fino alla morte, in un racconto corale, quasi epico, in quanto la piccola comunità nuorese del tempo viene rappresentata in un concerto di incroci, di quotidiano condiviso, di riti da tutti ossequiati, e allo stesso tempo profondamente lirico, perché ogni storia umana risulta in realtà chiusa nella propria singolare solitudine, della quale l’epigrafe tombale rappresenta quasi il sigillo supremo. Tale è la maestria di Satta, che, leggendo, sembra di viverla quella sua Nuoro in cambiamento tra la fine del secolo diciannovesimo e l’inizio del ventesimo: il caffè Tettamanzi e il corso, la Farmacia, il quartiere dei pastori predoni e quello dei poverissimi contadini, la declinazione tutta locale del movimento socialista e, come su uno sfondo lontano, il dramma della Prima guerra mondiale; soprattutto, leggendo, pare di essere compagni di viaggio dei personaggi del racconto, dapprima di don Sebastiano, notaio della città e centro propulsore della narrazione, dal quale si diramano come fili sottili le storie degli altri personaggi, la moglie e i figli dello stesso don Sebastiano, il suo fidatissimo colono, il clero “alto” e quello “basso” coi preti in eterna contesa, i maestri, gli avvocati, i pastori, i contadini sfiancati dalla fame, il folle della città.

Non che la scrittura di Satta sia mimetica, nulla di veristico, ché al contrario Satta affianca a descrizioni minuziose slanci visionari, ipotesi riflessive, dubbi sottesi alla verità apparente; il punto è che la stessa operazione di Satta di ridestare i defunti permette al lettore di cogliere una sorta di fissità dell’umanità, che si ripete, di generazione in generazione, in una sorta di “eternità della specie”, che ora ci sublima ora ci inabissa, ma inevitabilmente ci ipnotizza. Interrogandosi spesso nel corso della narrazione sulla liceità morale di questa sua intrusione nelle vite dei morti, Satta afferma che probabilmente essi lo sentono “come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria”; fatto è che nella mente del lettore queste memorie si fissano come parole scolpite nella pietra: io, come dei ritratti-ricordo di mia nonna, mai saprei liberarmene. A presto.☺

 

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