“Ricordo soprattutto il suo sguardo. Quegli occhi schifosi su di me. Non mi lasciavano un istante, mi stavano addosso, mi facevano paura…”. Alterna lacrime e sorrisi Neli, mentre racconta, con emozione crescente, lo stupro che ha subito il giorno del suo arrivo in Italia all’aeroporto di Fiumicino. Davvero un benvenuto singolare. Nella capitale è approdata dal Sudamerica, da Lima, in Perù, in cerca di lavoro e fortuna. Una delle tante. È piccola, esile, colorito ambrato. “Me entiendes? Me entiendes?” dice, e lascia la storia andare avanti. “Sono venuta a Roma per lavorare, come fanno tante mie amiche. Avevo il visto da turista, tutte veniamo così, per entrare nel vostro Paese, poi ti fermi e cerchi di andare avanti. Quando siamo arrivati alla dogana ci siamo messi in fila, tutti passeggeri, tutto regolare ma a me, solo a me, hanno fatto passare da un’altra parte, mi hanno mandata nell’officina dell’immigra- zione. Hanno sempre qualcosa da chiedere a noi sudamericani. Io non avevo paura, ero in regola, sapevo che non avevo nulla da temere. Ho aspettato un’ora e mezza seduta lì, poi mi hanno preso il passaporto e mi hanno portato al piano di sopra. Cominciavo a sentirmi in ansia. Avevo speso tutti i miei soldi per venire in Italia, avevo con me tutti i miei risparmi, avevo solo quelli, se me li prendevano e mi rimandavano in patria, avrei dovuto chiedere l’elemosina”.
Sembra di vederla Neli che si tortura le mani in una stanza asettica dell’aero- porto buono della capitale, una stanza di cui ora ricorda solo il vuoto, le ore che passano e l’incertezza che l’avvolge, quando all’im- provviso arriva un uomo con fare autoritario, deciso. Le dice qualcosa, la ragazza guarda le stellette sulla divisa. Sa che deve fidarsi. “Mi ha ripetuto due o tre volte una frase, io non capivo una parola d’italiano, ma dal gesto ho pensato che volesse dire seguimi e così ho cominciato a camminare dietro di lui. Mi ha fatto camminare a lungo, forse avrei dovuto sospettare, ma io ero sempre fiduciosa. Bisogna fidarsi della polizia. Invece lui mi ha portato in un bagno, ha chiuso a chiave la porta e mi si è buttato addosso. Aveva degli occhi terribili e diceva cose insensate, mi chiamava amore. Mi ha alzato la maglietta ed io non riuscivo a fare nulla. Non riuscivo a difendermi, urlavo, cercavo di fuggire ma lui era come matto. Mi guardava con quelli occhi schifosi e mi chiamava amore, una cosa senza senso, mi trattava come una bestia e mi chiamava amore”. Quando tutto è finito l’uomo le dice con aria schifata altre frasi di cui stavolta Neli capisce benissimo il senso. “Tra pochi minuti ti cacceranno dall’Italia, ti rimanderanno in patria, aspettami qua vado a prendere i tuoi documenti”.
L’uomo esce, si va a ricomporre, Neli ignora l’ordine, vede che la porta non è bloccata e scappa via, disperata, in cerca di aiuto, anche se ora i suoi parametri sono saltati e non sa più da che parte si può nascondere il nemico. Corre come un’invasata, scivola nell’ufficio immigrazione. È piena di rancore e di paura. Subito dopo, dalla stessa porta, entra anche il suo aggressore che dice qualcosa al funzionario di turno. Ha indosso la terribile aria strafottente, da vincitore. La ragazza comincia a urlare, a piangere, ma nessuno sembra capirla né riesce a spiegarsi il perché di tanta rabbia. La ragazza allora ha un lampo improvviso, capisce che quell’uomo, se rimarrà libero e impunito, approfitterà anche di altre straniere come lei ed invece di rassegnarsi, di lasciarsi andare al dolore, scappa ancora e comincia a correre per l’aeroporto cercando qualcuna che possa aiutarla, che possa capire la sua lingua. E finalmente la fortuna cambia rotta, incontra una donna spagnola che cerca di tranquillizzarla e ascolta tutta la sua storia. È lei alla fine a chiamare la polizia per fare la denuncia. “Quegli occhi li ho rivisti in tribunale, quando lo hanno condannato. Un uomo ‘sin verguenza’, non ha mai abbassato lo sguardo. Aveva le mani in tasca e rideva, come a dire “tanto ti ho fregato”. Seduti vicino a lui c’erano sua moglie e suo figlio. Lui non aveva vergogna. Loro due non dicevano nemmeno una parola, stavano fermi, sembravano due statue. Lui mi guardava con quegli occhi sporchi e rideva”.
morenavaccaro2@virgilio.it
“Ricordo soprattutto il suo sguardo. Quegli occhi schifosi su di me. Non mi lasciavano un istante, mi stavano addosso, mi facevano paura…”. Alterna lacrime e sorrisi Neli, mentre racconta, con emozione crescente, lo stupro che ha subito il giorno del suo arrivo in Italia all’aeroporto di Fiumicino. Davvero un benvenuto singolare. Nella capitale è approdata dal Sudamerica, da Lima, in Perù, in cerca di lavoro e fortuna. Una delle tante. È piccola, esile, colorito ambrato. “Me entiendes? Me entiendes?” dice, e lascia la storia andare avanti. “Sono venuta a Roma per lavorare, come fanno tante mie amiche. Avevo il visto da turista, tutte veniamo così, per entrare nel vostro Paese, poi ti fermi e cerchi di andare avanti. Quando siamo arrivati alla dogana ci siamo messi in fila, tutti passeggeri, tutto regolare ma a me, solo a me, hanno fatto passare da un’altra parte, mi hanno mandata nell’officina dell’immigra- zione. Hanno sempre qualcosa da chiedere a noi sudamericani. Io non avevo paura, ero in regola, sapevo che non avevo nulla da temere. Ho aspettato un’ora e mezza seduta lì, poi mi hanno preso il passaporto e mi hanno portato al piano di sopra. Cominciavo a sentirmi in ansia. Avevo speso tutti i miei soldi per venire in Italia, avevo con me tutti i miei risparmi, avevo solo quelli, se me li prendevano e mi rimandavano in patria, avrei dovuto chiedere l’elemosina”.
Sembra di vederla Neli che si tortura le mani in una stanza asettica dell’aero- porto buono della capitale, una stanza di cui ora ricorda solo il vuoto, le ore che passano e l’incertezza che l’avvolge, quando all’im- provviso arriva un uomo con fare autoritario, deciso. Le dice qualcosa, la ragazza guarda le stellette sulla divisa. Sa che deve fidarsi. “Mi ha ripetuto due o tre volte una frase, io non capivo una parola d’italiano, ma dal gesto ho pensato che volesse dire seguimi e così ho cominciato a camminare dietro di lui. Mi ha fatto camminare a lungo, forse avrei dovuto sospettare, ma io ero sempre fiduciosa. Bisogna fidarsi della polizia. Invece lui mi ha portato in un bagno, ha chiuso a chiave la porta e mi si è buttato addosso. Aveva degli occhi terribili e diceva cose insensate, mi chiamava amore. Mi ha alzato la maglietta ed io non riuscivo a fare nulla. Non riuscivo a difendermi, urlavo, cercavo di fuggire ma lui era come matto. Mi guardava con quelli occhi schifosi e mi chiamava amore, una cosa senza senso, mi trattava come una bestia e mi chiamava amore”. Quando tutto è finito l’uomo le dice con aria schifata altre frasi di cui stavolta Neli capisce benissimo il senso. “Tra pochi minuti ti cacceranno dall’Italia, ti rimanderanno in patria, aspettami qua vado a prendere i tuoi documenti”.
L’uomo esce, si va a ricomporre, Neli ignora l’ordine, vede che la porta non è bloccata e scappa via, disperata, in cerca di aiuto, anche se ora i suoi parametri sono saltati e non sa più da che parte si può nascondere il nemico. Corre come un’invasata, scivola nell’ufficio immigrazione. È piena di rancore e di paura. Subito dopo, dalla stessa porta, entra anche il suo aggressore che dice qualcosa al funzionario di turno. Ha indosso la terribile aria strafottente, da vincitore. La ragazza comincia a urlare, a piangere, ma nessuno sembra capirla né riesce a spiegarsi il perché di tanta rabbia. La ragazza allora ha un lampo improvviso, capisce che quell’uomo, se rimarrà libero e impunito, approfitterà anche di altre straniere come lei ed invece di rassegnarsi, di lasciarsi andare al dolore, scappa ancora e comincia a correre per l’aeroporto cercando qualcuna che possa aiutarla, che possa capire la sua lingua. E finalmente la fortuna cambia rotta, incontra una donna spagnola che cerca di tranquillizzarla e ascolta tutta la sua storia. È lei alla fine a chiamare la polizia per fare la denuncia. “Quegli occhi li ho rivisti in tribunale, quando lo hanno condannato. Un uomo ‘sin verguenza’, non ha mai abbassato lo sguardo. Aveva le mani in tasca e rideva, come a dire “tanto ti ho fregato”. Seduti vicino a lui c’erano sua moglie e suo figlio. Lui non aveva vergogna. Loro due non dicevano nemmeno una parola, stavano fermi, sembravano due statue. Lui mi guardava con quegli occhi sporchi e rideva”.
“Ricordo soprattutto il suo sguardo. Quegli occhi schifosi su di me. Non mi lasciavano un istante, mi stavano addosso, mi facevano paura…”. Alterna lacrime e sorrisi Neli, mentre racconta, con emozione crescente, lo stupro che ha subito il giorno del suo arrivo in Italia all’aeroporto di Fiumicino. Davvero un benvenuto singolare. Nella capitale è approdata dal Sudamerica, da Lima, in Perù, in cerca di lavoro e fortuna. Una delle tante. È piccola, esile, colorito ambrato. “Me entiendes? Me entiendes?” dice, e lascia la storia andare avanti. “Sono venuta a Roma per lavorare, come fanno tante mie amiche. Avevo il visto da turista, tutte veniamo così, per entrare nel vostro Paese, poi ti fermi e cerchi di andare avanti. Quando siamo arrivati alla dogana ci siamo messi in fila, tutti passeggeri, tutto regolare ma a me, solo a me, hanno fatto passare da un’altra parte, mi hanno mandata nell’officina dell’immigra- zione. Hanno sempre qualcosa da chiedere a noi sudamericani. Io non avevo paura, ero in regola, sapevo che non avevo nulla da temere. Ho aspettato un’ora e mezza seduta lì, poi mi hanno preso il passaporto e mi hanno portato al piano di sopra. Cominciavo a sentirmi in ansia. Avevo speso tutti i miei soldi per venire in Italia, avevo con me tutti i miei risparmi, avevo solo quelli, se me li prendevano e mi rimandavano in patria, avrei dovuto chiedere l’elemosina”.
Sembra di vederla Neli che si tortura le mani in una stanza asettica dell’aero- porto buono della capitale, una stanza di cui ora ricorda solo il vuoto, le ore che passano e l’incertezza che l’avvolge, quando all’im- provviso arriva un uomo con fare autoritario, deciso. Le dice qualcosa, la ragazza guarda le stellette sulla divisa. Sa che deve fidarsi. “Mi ha ripetuto due o tre volte una frase, io non capivo una parola d’italiano, ma dal gesto ho pensato che volesse dire seguimi e così ho cominciato a camminare dietro di lui. Mi ha fatto camminare a lungo, forse avrei dovuto sospettare, ma io ero sempre fiduciosa. Bisogna fidarsi della polizia. Invece lui mi ha portato in un bagno, ha chiuso a chiave la porta e mi si è buttato addosso. Aveva degli occhi terribili e diceva cose insensate, mi chiamava amore. Mi ha alzato la maglietta ed io non riuscivo a fare nulla. Non riuscivo a difendermi, urlavo, cercavo di fuggire ma lui era come matto. Mi guardava con quelli occhi schifosi e mi chiamava amore, una cosa senza senso, mi trattava come una bestia e mi chiamava amore”. Quando tutto è finito l’uomo le dice con aria schifata altre frasi di cui stavolta Neli capisce benissimo il senso. “Tra pochi minuti ti cacceranno dall’Italia, ti rimanderanno in patria, aspettami qua vado a prendere i tuoi documenti”.
L’uomo esce, si va a ricomporre, Neli ignora l’ordine, vede che la porta non è bloccata e scappa via, disperata, in cerca di aiuto, anche se ora i suoi parametri sono saltati e non sa più da che parte si può nascondere il nemico. Corre come un’invasata, scivola nell’ufficio immigrazione. È piena di rancore e di paura. Subito dopo, dalla stessa porta, entra anche il suo aggressore che dice qualcosa al funzionario di turno. Ha indosso la terribile aria strafottente, da vincitore. La ragazza comincia a urlare, a piangere, ma nessuno sembra capirla né riesce a spiegarsi il perché di tanta rabbia. La ragazza allora ha un lampo improvviso, capisce che quell’uomo, se rimarrà libero e impunito, approfitterà anche di altre straniere come lei ed invece di rassegnarsi, di lasciarsi andare al dolore, scappa ancora e comincia a correre per l’aeroporto cercando qualcuna che possa aiutarla, che possa capire la sua lingua. E finalmente la fortuna cambia rotta, incontra una donna spagnola che cerca di tranquillizzarla e ascolta tutta la sua storia. È lei alla fine a chiamare la polizia per fare la denuncia. “Quegli occhi li ho rivisti in tribunale, quando lo hanno condannato. Un uomo ‘sin verguenza’, non ha mai abbassato lo sguardo. Aveva le mani in tasca e rideva, come a dire “tanto ti ho fregato”. Seduti vicino a lui c’erano sua moglie e suo figlio. Lui non aveva vergogna. Loro due non dicevano nemmeno una parola, stavano fermi, sembravano due statue. Lui mi guardava con quegli occhi sporchi e rideva”.
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