Molto andò errando
28 Aprile 2017
La Fonte (351 articles)
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Molto andò errando

Subito dopo la morte di Primo Levi, lo scrittore triestino Claudio Magris pubblicò un articolo che cominciava così: “È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale”. Sono trascorsi trent’anni dalla scomparsa di Levi e, nonostante sia sempre diffuso il pregiudizio sull’inutilità della letteratura, Se questo è un uomo – per citare solo il più celebre dei suoi capolavori – rimane un libro indispensabile, un’opera di cui non può fare a meno chiunque abbia il senso dell’umana dignità.
Primo Levi venne trovato morto la mattina dell’11 aprile 1987, nella propria casa di Torino, in corso Re Umberto 75, a seguito di una caduta nella tromba delle scale, ma non è stato mai chiarito se si sia trattato di un suicidio o di un incidente.
Le ragioni che potrebbero averlo condotto al suicidio sono state analizzate in particolare da Marco Belpoliti, che ha curato l’edizione Einaudi delle Opere di Levi uscita nel 1997 e gli ha dedicato diverse monografie. Pur precisando che “nessuno sa le ragioni di un suicidio, neppure chi si è suicidato” (come Levi stesso scriveva a proposito di Jean Améry, un filosofo anch’egli deportato, morto suicida nel 1978), Belpoliti ricorda che Levi soffriva di una forte depressione. In primo luogo dovuta al senso di vergogna per essere sopravvissuto allo sterminio nazista: quella vergogna – descritta in un passo del romanzo La tregua -, “che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare ad un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che […] la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”. Quel senso di vergogna Levi non lo avrebbe superato nemmeno quando, dopo la prigionia, un amico lo fece riflettere: “Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. […] E perché proprio io? […] Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza” (dal cap. III La vergogna, del saggio I sommersi e i salvati). Ma era un “dono avvelenato”, quello della scrittura, che lo costringeva a rivivere continuamente il suo tormento, acuito, negli ultimi tempi, dall’assistenza alla madre malata di cancro, nella cui sofferenza a Levi sembrava di rivedere quella di migliaia di prigionieri dietro il filo spinato.
Infine, un intervento alla prostata, due settimane prima della morte, aveva costretto Levi ad interrompere l’assunzione di farmaci antidepressivi.
Pur aggiungendo alle supposizioni di Belpoliti la notizia che suo nonno Michele era morto buttandosi dalla finestra del secondo piano, in via S. Francesco da Paola a Torino, quella del suicidio di Levi rimane comunque un’ipotesi contestata da molti. L’autore non aveva infatti mai dimostrato l’intenzione di uccidersi e aveva anzi dei piani per l’immediato futuro. A testimoniarlo un articolo, pubblicato sul quotidiano “Avvenire” dell’1 aprile 2006 dallo scrittore Ferdinando Camon, riguardo all’ultima lettera che Levi gli aveva spedito la mattina stessa del suo presunto suicidio: “Primo Levi è morto di sabato, il martedì dopo m’è arrivata una sua lettera. Mi viene addosso una tristezza infinita e mi dico: «Ecco, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi». Mi aspetto la confessione che vivere gli è impossibile, che dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c’è spazio per le vittime dello sterminio e per chi lo nega, che lui si uccide adesso ma doveva farlo quarant’anni prima, e che dunque le spiegazioni non vanno cercate in quel che succede adesso, ma in quel che era successo 45-40 anni prima. Questo m’aspetto, aprendo la lettera, che dev’essere stata l’ultima che ha scritto e imbucato. Se m’è arrivata al martedì, doveva averla imbucata il sabato: dunque durante la passeggiata che faceva ogni mattina. La apro: un inno alla vita, un vortice di programmi, speranze, attese, da riempire settimane, mesi e anni”.
Dalle parole sempre lucide e misurate di Primo Levi si potrebbero trarre infiniti frammenti di saggezza a cui affidare una conclusione. Ma quella più efficace, alla luce della testimonianza di Camon, è forse l’epitaffio che avrebbe voluto sulla sua tomba, con le parole che nel celebre incipit dell’Odissea sono dedicate ad Ulisse: pollà plànkthe, “molto andò errando”.

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