Che ne sarà della fresca “ventata di risveglio” che da alcuni mesi interessa i paesi del Nord Africa? I venti leggeri, che nell’immaginario poetico accompagnano l’arrivo della bella stagione, sembra non stiano soffiando sul Mediterraneo. Minacciosi venti di guerra – speriamo invano – li stanno scacciando.
La cronaca di ciò che sta accadendo in questi giorni, seppur sbiadita e distratta, ha riportato all’attenzione di tutti parole del vocabolario “bellico” che spesso attengono alla lingua inglese e di cui tutti ormai fanno un uso disinvolto e apparentemente consapevole.
No fly zone [pronuncia: noflaizon], vale a dire “zona di interdizione al volo” è la strategia di cui si sente parlare continuamente da parte dei mezzi di informazione: contrastare attacchi o azioni di guerra impedendo all’aviazione di un paese (nel caso attuale la Libia) di volare nello spazio di cielo interdetto.
L’espressione anglofona è costituita dalla particella negativa no, che è anche aggettivo numerale “nessuno/a”, e dal verbo fly [pronuncia: flai], volare, che in inglese traduce sia l’azione di librarsi in volo, propria di alcune specie viventi del mondo animale, sia quella “mediata” di noi umani, cioè prendere un aereo, utilizzare un mezzo di trasporto per aria.
No fly zone, che è oggetto di discussione da parte degli organismi internazionali, i quali dovrebbero garantire la sicurezza delle nazioni e impedire i conflitti, indica pur sempre un’azione coercitiva, di offesa, anche se velata dalla denominazione al negativo, indiretta, volutamente non chiara.
Lo stile “politicamente corretto”, molto caro al mondo anglosassone, pare qui messo in atto sul piano verbale: una limitazione, anche se breve o parziale, della libertà di una nazione prelude ad atti di guerra, presuppone l’intervento armato in caso di violazione, può trasformarsi nell’“anticamera” di un conflitto!
Viene perciò da chiedersi: cosa sono, o meglio, cosa sono diventate le parole che usiamo? Quanta chiarezza ritroviamo oggi nei vocaboli e nelle locuzioni del nostro linguaggio?
Da più parti si riflette sul senso delle parole e sul rispetto ad esse dovuto in quanto veicolo per rappresentare il mondo e stabilire relazioni. Vengono “manomesse” secondo alcuni, mascherate secondo altri.
Con disinvoltura le espressioni linguistiche che utilizziamo, a volte, non rispondono affatto al significato profondo delle parole. L’“abuso” è tollerato, anzi sostituisce il significato originario: “le parole definiscono chi le usa” scriveva qualche mese fa Loredana Alberti sul nostro periodico, … “chi maltratta quello spazio condiviso che è il linguaggio, maltratta la comunità, la cosa pubblica. Anche usarle con cura è politica”.
Con convinzione sentiamo parlare di “missioni di pace” in paesi come l’Iraq o l’Afghanistan, e non riflettiamo sul fatto che dette “missioni” siano affidate non ad organizzazioni umanitarie, bensì ad eserciti, ad organismi militari che si contraddistinguono per l’uso di armi. All’obiezione che queste ultime servono per difendersi in caso di grave pericolo vorrei contrapporre gli esempi di quei coraggiosi operatori sanitari, quei volontari o addetti all’informazione che sostengono azioni cui è negata la notorietà o la ribalta della cronaca, ma che testimoniano con il loro impegno che relazioni umane “diverse” sono possibili e che non sono necessarie la violenza e la sopraffazione.
La crisi libica pone alla comunità internazionale non pochi problemi, portando alla luce in realtà piuttosto la preoccupazione di conservare i privilegi economici – soprattutto per le nazioni del mondo occidentale – che la volontà di contribuire alla liberazione dei popoli da regimi totalitari.
Il Mediterraneo è stato reso “una specie di fossato che divide due mondi opposti, europei ed arabi, cristiani e musulmani, Occidente ed Oriente” ricorda Raniero La Valle; a questo mare è stata negata l’identità di nazione unica, che gli deriva da secoli di storia che hanno visto il fiorire di importanti civiltà sulle sue coste.
Barriere, separazioni, contrapposizioni: questo è stato il progetto politico che il ricco Occidente ha messo in atto in questa area del mondo, acuendo problemi tragici che chiedono soluzioni condivise ed elaborate.
Non certamente una ambigua, quanto mai vaga, no fly zone! ☺
dario.carlone@tiscali.it
Che ne sarà della fresca “ventata di risveglio” che da alcuni mesi interessa i paesi del Nord Africa? I venti leggeri, che nell’immaginario poetico accompagnano l’arrivo della bella stagione, sembra non stiano soffiando sul Mediterraneo. Minacciosi venti di guerra – speriamo invano – li stanno scacciando.
La cronaca di ciò che sta accadendo in questi giorni, seppur sbiadita e distratta, ha riportato all’attenzione di tutti parole del vocabolario “bellico” che spesso attengono alla lingua inglese e di cui tutti ormai fanno un uso disinvolto e apparentemente consapevole.
No fly zone [pronuncia: noflaizon], vale a dire “zona di interdizione al volo” è la strategia di cui si sente parlare continuamente da parte dei mezzi di informazione: contrastare attacchi o azioni di guerra impedendo all’aviazione di un paese (nel caso attuale la Libia) di volare nello spazio di cielo interdetto.
L’espressione anglofona è costituita dalla particella negativa no, che è anche aggettivo numerale “nessuno/a”, e dal verbo fly [pronuncia: flai], volare, che in inglese traduce sia l’azione di librarsi in volo, propria di alcune specie viventi del mondo animale, sia quella “mediata” di noi umani, cioè prendere un aereo, utilizzare un mezzo di trasporto per aria.
No fly zone, che è oggetto di discussione da parte degli organismi internazionali, i quali dovrebbero garantire la sicurezza delle nazioni e impedire i conflitti, indica pur sempre un’azione coercitiva, di offesa, anche se velata dalla denominazione al negativo, indiretta, volutamente non chiara.
Lo stile “politicamente corretto”, molto caro al mondo anglosassone, pare qui messo in atto sul piano verbale: una limitazione, anche se breve o parziale, della libertà di una nazione prelude ad atti di guerra, presuppone l’intervento armato in caso di violazione, può trasformarsi nell’“anticamera” di un conflitto!
Viene perciò da chiedersi: cosa sono, o meglio, cosa sono diventate le parole che usiamo? Quanta chiarezza ritroviamo oggi nei vocaboli e nelle locuzioni del nostro linguaggio?
Da più parti si riflette sul senso delle parole e sul rispetto ad esse dovuto in quanto veicolo per rappresentare il mondo e stabilire relazioni. Vengono “manomesse” secondo alcuni, mascherate secondo altri.
Con disinvoltura le espressioni linguistiche che utilizziamo, a volte, non rispondono affatto al significato profondo delle parole. L’“abuso” è tollerato, anzi sostituisce il significato originario: “le parole definiscono chi le usa” scriveva qualche mese fa Loredana Alberti sul nostro periodico, … “chi maltratta quello spazio condiviso che è il linguaggio, maltratta la comunità, la cosa pubblica. Anche usarle con cura è politica”.
Con convinzione sentiamo parlare di “missioni di pace” in paesi come l’Iraq o l’Afghanistan, e non riflettiamo sul fatto che dette “missioni” siano affidate non ad organizzazioni umanitarie, bensì ad eserciti, ad organismi militari che si contraddistinguono per l’uso di armi. All’obiezione che queste ultime servono per difendersi in caso di grave pericolo vorrei contrapporre gli esempi di quei coraggiosi operatori sanitari, quei volontari o addetti all’informazione che sostengono azioni cui è negata la notorietà o la ribalta della cronaca, ma che testimoniano con il loro impegno che relazioni umane “diverse” sono possibili e che non sono necessarie la violenza e la sopraffazione.
La crisi libica pone alla comunità internazionale non pochi problemi, portando alla luce in realtà piuttosto la preoccupazione di conservare i privilegi economici – soprattutto per le nazioni del mondo occidentale – che la volontà di contribuire alla liberazione dei popoli da regimi totalitari.
Il Mediterraneo è stato reso “una specie di fossato che divide due mondi opposti, europei ed arabi, cristiani e musulmani, Occidente ed Oriente” ricorda Raniero La Valle; a questo mare è stata negata l’identità di nazione unica, che gli deriva da secoli di storia che hanno visto il fiorire di importanti civiltà sulle sue coste.
Barriere, separazioni, contrapposizioni: questo è stato il progetto politico che il ricco Occidente ha messo in atto in questa area del mondo, acuendo problemi tragici che chiedono soluzioni condivise ed elaborate.
Non certamente una ambigua, quanto mai vaga, no fly zone! ☺
Che ne sarà della fresca “ventata di risveglio” che da alcuni mesi interessa i paesi del Nord Africa? I venti leggeri, che nell’immaginario poetico accompagnano l’arrivo della bella stagione, sembra non stiano soffiando sul Mediterraneo. Minacciosi venti di guerra – speriamo invano – li stanno scacciando.
La cronaca di ciò che sta accadendo in questi giorni, seppur sbiadita e distratta, ha riportato all’attenzione di tutti parole del vocabolario “bellico” che spesso attengono alla lingua inglese e di cui tutti ormai fanno un uso disinvolto e apparentemente consapevole.
No fly zone [pronuncia: noflaizon], vale a dire “zona di interdizione al volo” è la strategia di cui si sente parlare continuamente da parte dei mezzi di informazione: contrastare attacchi o azioni di guerra impedendo all’aviazione di un paese (nel caso attuale la Libia) di volare nello spazio di cielo interdetto.
L’espressione anglofona è costituita dalla particella negativa no, che è anche aggettivo numerale “nessuno/a”, e dal verbo fly [pronuncia: flai], volare, che in inglese traduce sia l’azione di librarsi in volo, propria di alcune specie viventi del mondo animale, sia quella “mediata” di noi umani, cioè prendere un aereo, utilizzare un mezzo di trasporto per aria.
No fly zone, che è oggetto di discussione da parte degli organismi internazionali, i quali dovrebbero garantire la sicurezza delle nazioni e impedire i conflitti, indica pur sempre un’azione coercitiva, di offesa, anche se velata dalla denominazione al negativo, indiretta, volutamente non chiara.
Lo stile “politicamente corretto”, molto caro al mondo anglosassone, pare qui messo in atto sul piano verbale: una limitazione, anche se breve o parziale, della libertà di una nazione prelude ad atti di guerra, presuppone l’intervento armato in caso di violazione, può trasformarsi nell’“anticamera” di un conflitto!
Viene perciò da chiedersi: cosa sono, o meglio, cosa sono diventate le parole che usiamo? Quanta chiarezza ritroviamo oggi nei vocaboli e nelle locuzioni del nostro linguaggio?
Da più parti si riflette sul senso delle parole e sul rispetto ad esse dovuto in quanto veicolo per rappresentare il mondo e stabilire relazioni. Vengono “manomesse” secondo alcuni, mascherate secondo altri.
Con disinvoltura le espressioni linguistiche che utilizziamo, a volte, non rispondono affatto al significato profondo delle parole. L’“abuso” è tollerato, anzi sostituisce il significato originario: “le parole definiscono chi le usa” scriveva qualche mese fa Loredana Alberti sul nostro periodico, … “chi maltratta quello spazio condiviso che è il linguaggio, maltratta la comunità, la cosa pubblica. Anche usarle con cura è politica”.
Con convinzione sentiamo parlare di “missioni di pace” in paesi come l’Iraq o l’Afghanistan, e non riflettiamo sul fatto che dette “missioni” siano affidate non ad organizzazioni umanitarie, bensì ad eserciti, ad organismi militari che si contraddistinguono per l’uso di armi. All’obiezione che queste ultime servono per difendersi in caso di grave pericolo vorrei contrapporre gli esempi di quei coraggiosi operatori sanitari, quei volontari o addetti all’informazione che sostengono azioni cui è negata la notorietà o la ribalta della cronaca, ma che testimoniano con il loro impegno che relazioni umane “diverse” sono possibili e che non sono necessarie la violenza e la sopraffazione.
La crisi libica pone alla comunità internazionale non pochi problemi, portando alla luce in realtà piuttosto la preoccupazione di conservare i privilegi economici – soprattutto per le nazioni del mondo occidentale – che la volontà di contribuire alla liberazione dei popoli da regimi totalitari.
Il Mediterraneo è stato reso “una specie di fossato che divide due mondi opposti, europei ed arabi, cristiani e musulmani, Occidente ed Oriente” ricorda Raniero La Valle; a questo mare è stata negata l’identità di nazione unica, che gli deriva da secoli di storia che hanno visto il fiorire di importanti civiltà sulle sue coste.
Barriere, separazioni, contrapposizioni: questo è stato il progetto politico che il ricco Occidente ha messo in atto in questa area del mondo, acuendo problemi tragici che chiedono soluzioni condivise ed elaborate.
Non certamente una ambigua, quanto mai vaga, no fly zone! ☺
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