Narrazioni tossiche e contronarrazioni
14 Dicembre 2021
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Narrazioni tossiche e contronarrazioni

Molti si chiedono cosa significhi l’espressione “narrazione tossica”: provo a darne una indicazione. La tossicità è la caratteristica di un farmaco velenoso, ossia profondamente nocivo per l’organismo. Per estensione metaforica è tossico qualsiasi discorso o concetto che rischia di condizionare la conoscenza delle cose, della realtà, dandone una interpretazione presuntuosamente unilaterale, parziale, non obiettiva, impedendo cioè un punto di vista autenticamente libero da pregiudizi o da condizionamenti. Se, per esempio, affermo che all’attuale processo di industrializzazione non sia possibile attribuire responsabilità relative alla distruzione della natura, al deterioramento del territorio, al degrado del paesaggio, espongo un concetto tossico, in quanto appare sotto gli occhi di tutte/i che la natura, il paesaggio, il territorio sono letteralmente avvelenati, distrutti dall’industrializzazione selvaggia, dall’ inarrestabile cementificazione del territorio. Questo non significa che siamo aprioristicamente contrari alle nuove tecnologie, ma siamo convinti che questo processo sia sottoposto unicamente alla logica dei profitti, a quella dell’ accumulazione abnorme dei capitali, così come è stato già voluto, in primis dagli USA, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e precisamente dagli accordi di Bretton Woods  dai quali discende concettualmente la logica del mercato e, quindi, del business a tutti i costi.

Il volume Contronarrazioni si compone di 22 testi, ciascuno dei quali dipana e smaschera altrettante narrazioni tossiche, fra le quali corre l’obbligo (non formale) di citarne almeno quattro, che appartengono al prof. Piero Bevilacqua, che ha curato la prefazione del volume (nonché il testo Gli immigrati ci rubano il lavoro), alla prof.ssa Tiziana Drago (I saperi umanistici non servono a nulla), all’urbanista e scrittore Enzo Scandurra (Semplificare, semplificare, qualcosa ne uscirà fuori), al prof. Rossano Pazzagli, (Tutti al centro), collaboratore assiduo de la fonte.

Entriamo a questo punto nel merito della questione. L’uomo, come narrano le pagine della tradizione biblica e numerosi miti, è nato, è stato creato dal fango, che è terra mista ad acqua, e questa sostanza indica quanto profondo e continuo nel tempo sia il rapporto tra l’umanità ed il suolo su cui essa cammina, portando avanti la sua storia, complessa, quasi sempre attraversata da conflitti, guerre, malattie, che ne minano alla base l’esistenza, e, di conseguenza, la continuità tra lei e la terra. Oggi, però, se per assurdo ci fosse nuovamente la nascita dell’umanità, essa sarebbe plasmata con terra inquinata da una agricoltura industrializzata, resa sterile ed improduttiva da fertilizzanti, avvelenata da pesticidi ed erbicidi, usati anche in ambiti militari, come quelli della cosiddetta “esportazione della democrazia occidentale”! Di qui traiamo il convincimento, meglio ancora l’immagine di una umanità sterile, tossica, differente da quella delle origini e che confligge con il resto della natura. Dunque, abbiamo una umanità che non ha quasi più contatti con la bellezza dei territori e con l’armonia della natura, del Creato, come ama spesso ripetere papa Francesco. Quello che si presenta davanti a noi, sotto i nostri occhi, è un vero disastro, è una condizione caotica, pericolosamente instabile, prossima alla distruzione e alla scomparsa della Terra. Le ragazze e i ragazzi di tutto il mondo hanno fatto sentire la loro voce dissenziente al G20 di Roma e in questi ultimi giorni a Glasgow, al Cop 26, vertice, organizzato dalle Nazioni Unite, discutendo delle urgenti soluzioni che potrebbero impedire la distruzione del pianeta, se non si riducono le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, causa dei cambiamenti climatici in atto e delle catastrofiche conseguenze legate a queste alterazioni. Temiamo, in verità, che le prossime generazioni assistano alla decadenza – etica, civile, culturale – inarrestabile dell’umanità e nello stesso tempo alla morte del nostro pianeta Terra.

Fatta questa premessa, trasferiamoci per le strade delle città di oggi, dove prevalgono l’inquinamento atmosferico per lo smog e la quasi totale assenza di contatti – un tempo naturalmente protesi al dialogo, al saluto, ai sorrisi – laddove oggi, complice anche la pandemia, prevalgono sospetti, fobie da contatto, allergia anche al semplice saluto come pure l’odio rancoroso verso quanti appaiono indigesti alla comunità cittadina, tra costoro i migranti, oppure quanti sono di pelle non bianca. Una città inquinata dallo smog asfissiante delle automobili, dai gas nocivi dei riscaldamenti, dalle emissioni micidiali delle industrie, inoltre necessita di “conversione ecologica”. Ma cosa è e cosa implica l’idea di “conversione ecologica?”. Innanzitutto la urgente necessità di cambiare radicalmente il nostro modo di concepire lo sviluppo, la produzione industriale, il rapporto con la natura, con il territorio, il paesaggio. Infatti, per evitare la irreversibilità dei cambiamenti climatici e il processo di distruzione della Terra è fondamentale mettere in discussione in modo definitivo la concezione dell’attuale sistema di produzione industriale neocapitalistica, basata sul crudo profitto e sul consumo smodato e senza regole delle risorse naturali del pianeta. Va presa in seria considerazione anche una profonda modificazione dei nostri stili di vita, dei consumi ad libitum. Al processo industriale e al boom economico hanno fatto da riscontro l’ impoverimento e la solitudine dei paesi interni della nostra Penisola. Poi, se vogliamo guardare al futuro, abbiamo assolutamente la necessità, direi l’obbligo civile ed etico, di abdicare anche al modello estrattivista, predatorio, dominato dalla finanza transnazionale, usuraia, inaffidabile perché visceralmente ostile alla società civile, all’uomo.

Ma quali alternative ci sono? Queste sono praticate già da tempo nel mondo, specialmente nei paesi dell’America centro-meridionale, e riguardano, per esempio, la “bioeconomia” (rifiuto dell’uso di fertilizzanti chimici e degli Ogm), l’“economia equo/solidale” (economia di prossimità, fatta da piccole imprese, che intendono recuperare colture e saperi tradizionali), “l’economia civile” (quella che si basa sulla difesa e sulla utilizzazione dei beni comuni), “l’economia di liberazione” (economia la cui produzione si mette in contatto diretto con l’utenza alla quale  rivolge il suo prodotto, liberandosi dai ceppi del mercato).

La nuova economia, quella che dovrà nascere dalla tragedia della pandemia della Sars.Co.V.2 e dalla crisi odierna del neocapitalismo finanziarizzato – qui è il senso di una contronarrazione – dovrà basarsi sui Beni comuni, proteggendoli e mettendoli a disposizione di tutti. Questi – ne cito soltanto alcuni – sono l’acqua, il territorio, le risorse e le energie naturali, ma anche quelli immateriali e cioè i saperi, i linguaggi, le istituzioni che regolano la convivenza, le tradizioni secolari, la democrazia responsabile; tutto ciò dobbiamo assolutamente salvaguardarlo, affidando questo enorme patrimonio alle nuove generazioni, che sono la radice del nostro vivere civile.☺

 

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