No a parole di odio
6 Maggio 2021
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No a parole di odio

Non “sono solo parole”. Prendo in prestito – o quasi – il titolo del capitolo conclusivo di Stai zitta di Michela Murgia per proseguire una riflessione più volte affrontata in queste pagine. Mi riferisco all’abitudine, mai sopita, né abbandonata, di utilizzare il linguaggio per esprimere disprezzo, violenza, odio. Si parla (ancora!) di quello che gli inglesi chiamano hate speech [pronuncia: heit spicc].

Nel nostro dizionario il neologismo è stato accolto da qualche anno come “espressione di odio rivolta, in presenza o tramite mezzi di comunicazione, contro individui o intere fasce di popolazione” (Treccani), ma ciò che preoccupa è che il fenomeno sta riemergendo, purtroppo, e le cronache ne sono piene. Letteralmente il vocabolo anglofono traduce “discorso o parole di odio”, essendo speech il sostantivo astratto derivante dal noto verbo speak [pronuncia: spik], parlare; ma spesso lo si rende in italiano con l’espressione “incita-mento all’odio”

Da un punto vista giuridico – a partire dagli U.S.A. – lo hate speech è stato classificato come categoria di comunicazione che fa ricorso a parole, sintagmi o elementi non verbali che mirano esclusivamente a manifestare odio e intolleranza ma anche ad incitare al pregiudizio verso una o un gruppo di persone accomunate da etnia, orientamento sessuale, politico, religioso o disabilità. Il discutibile comportamento continua ad interessare la vita collettiva tanto che organismi internazionali o sovranazionali, quali l’ Unesco e il Consiglio d’Europa, hanno nuovamente raccomandato di seguire direttive volte al “contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, alla disinformazione da cui essi traggono origine, alla creazione e promozione di narrazioni corrette e accurate e narrazioni alternative”(G. M. Gillio, Riforma 28/2/21).

A favorire, suo malgrado, la diffusione di questi messaggi di odio ha contribuito notevolmente l’ambiente digitale. Rispetto ai mezzi di comunicazione tradizionale, la Rete si è rivelata un mezzo facilitatore per veicolare un linguaggio violento ed aggressivo. Basti ricordare semplicemente ciò che Liliana Segre ha, da tempo, denunciato essersi verificato nei suoi confronti! Viene da pensare che le novità non sono sempre positive: è forse una banalità, ma sappiamo tutti quanto sia oggigiorno molto facile – più facile rispetto a qualche anno fa – esprimere le proprie opinioni, servirsi di uno dei diritti fondamentali della persona cioè comunicare, ma può accadere che le espressioni di odio, una volta immesse in rete, vengano divulgate, riprodotte e condivise, con una notevole capacità di persistenza: infatti le definiamo “virali”- ed oggi comprendiamo meglio la potenza di un virus!

La poco civile abitudine di ornare i discorsi con frasi o termini violenti, al di là dell’effetto accattivante nel richiamare attenzione o visibilità, è invece sintomo di scarsa sensibilità a vari livelli. Innanzitutto sul piano umano lo hate speech rappresenta soprattutto la “non considerazione” per altri esseri umani. Potrà apparire semplicistico, o anche puerile, ricordare che se siamo persone “con-viviamo” in un contesto, la società appunto, in cui gli individui sono tra loro simili e quindi portatori di stessi diritti e sottoposti a medesimi doveri. Educazione civica, si chiama, e da qualche tempo le scuole si premurano di insegnarla in ogni ordine e grado!

Ciò che alimenta le espressioni di odio è principalmente il pregiudizio che a sua volta si nutre di stereotipi in base ai quali le persone vengono classificate e, purtroppo, destinate a giudizi imprecisi e sommari. Esistono però dei parametri – la scala Allport, 1954 – in base ai quali viene valutato il pregiudizio all’interno di un gruppo sociale o comunità: la rappresentazione negativa, la non accoglienza, la discriminazione, l’aggressione fisica, la rimozione di tutto o parte di un gruppo sono comportamenti di estrema gravità sui quali siamo chiamati a meditare con criterio.

Un altro aspetto della questione – e non mi stanco di ribadirlo – è il modo di comunicare. Il linguaggio ha la sua funzione, che non va trascurata né dimenticata; quando ci esprimiamo possiamo gesticolare, alzare la voce, ricorrere a suoni e/o musiche ma soprattutto utilizziamo parole. E ad esse dovremmo riservare la dovuta attenzione per non commettere “l’errore peggiore di questo nostro tempo, che vive molte tragedie, ma soprattutto quella semantica, che è una tragedia etica” (M. Murgia). In una scena del film Palombella Rossa di Nanni Moretti, il protagonista “schiaffeggia la giornalista per l’uso approssimativo e sgarbato di alcune forme linguistiche, urlandole: «le parole sono importanti!». Dopo aggiungerà «chi parla male, pensa male. E vive male. Le parole sono importanti»”. (Riforma)

A questo punto non posso che fare mia la conclusione di Michela Murgia: “il modo in cui nominiamo la realtà è anche quello in cui finiamo per abitarla”.☺

 

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