No trivelle?
5 Maggio 2017
La Fonte (351 articles)
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No trivelle?

La messa in atto delle operazioni destinate alla perforazione di pozzi per la ricerca d’idrocarburi, siano essi esplorativi o produttivi, è il risultato di una serie di studi teorici e applicativi espletati in precedenza, razionalmente, in più fasi successive. Gli idrocarburi (olio e gas) sono il risultato dell’accumulo di materia organica nelle rocce in formazione (rocce madri), nei fondali marini, milioni di anni fa. Essi, un volta generati, essendo più leggeri dell’ acqua, si sono trasferiti, verso l’alto, all’interno di rocce permeabili (rocce serbatoio), fino a fermarsi in una “trappola”, allorquando hanno incontrato lo sbarramento di qualche copertura impermeabile.

Le conoscenze geologiche di base permettono di identificare le aree nelle quali è, potenzialmente, possibile rinvenire la presenza d’idrocarburi. In particolare, la geologia del petrolio si propone di riconoscere, nell’ambito di un determinato bacino, i meccanismi di formazione, migrazione, accumulo e conservazione degli idrocarburi che siano economicamente rilevanti. Per farlo utilizza tutta una serie di rilievi geofisici in grado di fornire informazioni che permettono d’individuare un possibile giacimento.

Negli ultimi tempi, sia per quanto stimato dallo stesso Ministero dello Sviluppo Economico circa il fatto che le riserve accertate coprirebbero il fabbisogno nazionale per poco più di un anno per il petrolio e per soli nove mesi per il gas, sia per la gravità e la diversa natura dei pericoli connessi all’estrazione d’idrocarburi, quali l’inquinamento delle falde idriche sotterranee, la sismicità indotta, la subsidenza in aree particolarmente sensibili, sono sorti e si sono attivati numerosi movimenti popolari NO TRIV d’opposizione alla coltivazione dei giacimenti potenzialmente raggiungibili.

La presa d’atto governativa è l’occasione che permette di riflettere attentamente sull’insieme dei costi e benefici del complesso delle operazioni, alla luce di quanto può essere stimato dalla somma algebrica delle ricadute economiche a breve periodo e i potenziali, conseguenti, danni ambientali rilevabili sia durante le fasi d’utilizzazione, che di quelle successive, relative alle operazioni di bonifica delle aree, superficiali e sotterranee, direttamente e/o indirettamente interessate (vedi il caso dei pozzi dismessi di Cercemaggiore).

Demonizzare, però, aprioristicamente, come pure si è fatto negli ultimi tempi, l’utilizzo delle più moderne e sofisticate tecniche di prospezioni geofisiche, senza considerare l’utilità delle informazioni da esse derivanti, per arricchire gli studi relativi alle conoscenze geologiche del nostro sottosuolo, a maggior ragione dopo quanto è risultato evidente anche in occasione del recente terremoto che ha colpito l’Italia centrale, con tutti i distinguo circa le modalità del loro impiego in mare e in terraferma, è come voler confondere l’esecuzione di una T.A.C. con l’affondo del bisturi, nel corpo di un paziente in una operazione chirurgica vera e propria.

E, allora, perché non pensare al finanziamento di un programma pluriennale, attraverso i pubblici istituti di ricerca, per la messa a punto di studi specifici, approfonditi e massimamente dettagliati per una conoscenza puntuale del sottosuolo fino alle profondità ritenute potenzialmente capaci di effetti più o meno importanti su quanto, di naturale e/o d’artificiale, ricade in superficie?

E, ancora, facendo riferimento alla progressiva e inevitabile diminuzione delle precipitazioni piovose, dovuta all’attuale periodo di cambiamento climatico, che renderà la risorsa acqua sempre più preziosa e insostituibile, perché non pensare che, proprio una maggiore, più approfondita e dettagliata conoscenza del sottosuolo, potrà permettere di delimitare, per la loro giusta salvaguardia, specialmente in profondità, le aree di influenza dei serbatoi idrici naturali, quali i rilievi carbonatici, collinari e montuosi del nostro Appennino, come il Matese, nonché le pianure alluvionali che rappresentano acquiferi naturali che ospitano falde d’acqua potabile che alimentano sorgenti di notevole portata e d’importanza fondamentale per l’assetto socio-economico locale e nazionale?

I finanziamenti? Per quanto risaputo, i sussidi allo sviluppo delle energie rinnovabili, per l’anno in corso, ammontano a 12,5 miliardi di euro (Fonte Assindustria), quelli relativi, invece, alle fonti fossili, oscillano tra i 14,7 miliardi (Fonte Legambiente) e i 13,2 (Fondo Monetario Internazionale). E, allora, perché non pensare che anche una frazione, del tutto marginale, d’importi di tale importanza, pressoché ininfluente sull’insieme di quanto appena indicato, distolta dalle cifre mostrate, potrebbe essere investita in forma intelligentemente utile per gli scopi testé illustrati, comprese le operazioni di bonifica di scorie chimiche e/o radioattive, anche delle suddette aree interessate?☺

 

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