ode al sognatore di Michela Di Memmo | La Fonte TV
Arturo che voleva fare l’artigiano si perse nei vicoli della città.
Amava il verde, le rose, l’amore, e voleva intagliare tutto nei grandi legni profumati.
Arturo era un giovane timido, sparuto, inadatto al vasto mondo.
Non era forte come una quercia, ma fragile come un giglio.
Arturo disegnava sui fazzoletti di carta i volti della gente che gli passava davanti.
Della gente che mangiava seduta ai bei tavoli luminosi.
Trovò un maestro severo che gli insegnò ad incidere i suoi piccoli sogni.
Il maestro costruiva da sé i suoi arnesi, con pezzi di gomma di cose buttate, con i pezzi di ferro che la gente aveva dimenticato.
Il mastro accoglieva tutto, era antico, curvo, silenzioso, con gli occhi azzurri dolci incavati nel suo volto scuro.
Arturo non conosceva l’amore, ma sapeva soffrire.
Conosceva l’odore dolce delle ragazze che passavano, con le gonne nel vento.
Arturo seguiva i movimenti del maestro con gli occhi attenti e produceva grandi silenzi.
Il maestro gli insegnò ad incidere i volti incantati delle donne.
Arturo scolpì la sua donna e la amò per sempre.
Le dedicò lunghe poesie d’amore, le scrisse canzoni.
Il maestro morì e Arturo prese in eredità la sua bottega.
La gente passava per vederlo lavorare.
Arturo intagliava e dormiva. Scultore meditabondo.
Scolpì la casa in cui abitò la sua donna. Scolpì loro figlio dai capelli ricci e bruni.
Scolpì la culla, i libri di scuola. Scolpì una montagna per portarlo a sciare. Scolpì giochi, altalene e un castello di sabbia. Scolpì un cane affettuoso dalla lunga coda.
Ma il figlio lo guardava con rabbia, perché desiderava essere vivo.
Arturo pianse a lungo, perché non sapeva che fare.
Lo portò in chiesa, ma il prete lo scambiò per matto e mise il figlio nella sua stanza mesta.
Lo tenne sul comò, seduto su una Bibbia dorata.
Arturo morì solo e lasciò un biglietto con scritto: Voglio essere seppellito sotto il tiglio dai rami gialli.
Il figlio lo cercò per perdonarlo, scappando dalla casa del prete.
La madre lo trovò sotto il tiglio, tanti anni dopo averlo perduto.
La pioggia li travolse e li trascinò nel mare.
Un bambino li trovò sulla spiaggia e disse: Anche io voglio imparare a fare degli omini belli così.
Il bambino crebbe e volle fare l’artista.
Andò in città e si perse in tutte le strade.
Trovò un maestro indulgente che coltivava fiori sul grande balcone.
Mangiava biscotti secchi e parlava di persone lontane, dal grande destino, tortuoso e triste, come i nodi del legno.
Il maestro era enorme e cantava e odorava di fresco.
Gli insegnò a scolpire i volti delle gente per sempre perduta.
Della gente venuta al mondo per vivere come le farfalle.
Il bambino capiva già molte cose del mondo.
Prima di tutto scolpì Arturo dal volto felice.☺
micheladimemmo@email.it
Arturo che voleva fare l’artigiano si perse nei vicoli della città.
Amava il verde, le rose, l’amore, e voleva intagliare tutto nei grandi legni profumati.
Arturo era un giovane timido, sparuto, inadatto al vasto mondo.
Non era forte come una quercia, ma fragile come un giglio.
Arturo disegnava sui fazzoletti di carta i volti della gente che gli passava davanti.
Della gente che mangiava seduta ai bei tavoli luminosi.
Trovò un maestro severo che gli insegnò ad incidere i suoi piccoli sogni.
Il maestro costruiva da sé i suoi arnesi, con pezzi di gomma di cose buttate, con i pezzi di ferro che la gente aveva dimenticato.
Il mastro accoglieva tutto, era antico, curvo, silenzioso, con gli occhi azzurri dolci incavati nel suo volto scuro.
Arturo non conosceva l’amore, ma sapeva soffrire.
Conosceva l’odore dolce delle ragazze che passavano, con le gonne nel vento.
Arturo seguiva i movimenti del maestro con gli occhi attenti e produceva grandi silenzi.
Il maestro gli insegnò ad incidere i volti incantati delle donne.
Arturo scolpì la sua donna e la amò per sempre.
Le dedicò lunghe poesie d’amore, le scrisse canzoni.
Il maestro morì e Arturo prese in eredità la sua bottega.
La gente passava per vederlo lavorare.
Arturo intagliava e dormiva. Scultore meditabondo.
Scolpì la casa in cui abitò la sua donna. Scolpì loro figlio dai capelli ricci e bruni.
Scolpì la culla, i libri di scuola. Scolpì una montagna per portarlo a sciare. Scolpì giochi, altalene e un castello di sabbia. Scolpì un cane affettuoso dalla lunga coda.
Ma il figlio lo guardava con rabbia, perché desiderava essere vivo.
Arturo pianse a lungo, perché non sapeva che fare.
Lo portò in chiesa, ma il prete lo scambiò per matto e mise il figlio nella sua stanza mesta.
Lo tenne sul comò, seduto su una Bibbia dorata.
Arturo morì solo e lasciò un biglietto con scritto: Voglio essere seppellito sotto il tiglio dai rami gialli.
Il figlio lo cercò per perdonarlo, scappando dalla casa del prete.
La madre lo trovò sotto il tiglio, tanti anni dopo averlo perduto.
La pioggia li travolse e li trascinò nel mare.
Un bambino li trovò sulla spiaggia e disse: Anche io voglio imparare a fare degli omini belli così.
Il bambino crebbe e volle fare l’artista.
Andò in città e si perse in tutte le strade.
Trovò un maestro indulgente che coltivava fiori sul grande balcone.
Mangiava biscotti secchi e parlava di persone lontane, dal grande destino, tortuoso e triste, come i nodi del legno.
Il maestro era enorme e cantava e odorava di fresco.
Gli insegnò a scolpire i volti delle gente per sempre perduta.
Della gente venuta al mondo per vivere come le farfalle.
Arturo che voleva fare l’artigiano si perse nei vicoli della città.
Amava il verde, le rose, l’amore, e voleva intagliare tutto nei grandi legni profumati.
Arturo era un giovane timido, sparuto, inadatto al vasto mondo.
Non era forte come una quercia, ma fragile come un giglio.
Arturo disegnava sui fazzoletti di carta i volti della gente che gli passava davanti.
Della gente che mangiava seduta ai bei tavoli luminosi.
Trovò un maestro severo che gli insegnò ad incidere i suoi piccoli sogni.
Il maestro costruiva da sé i suoi arnesi, con pezzi di gomma di cose buttate, con i pezzi di ferro che la gente aveva dimenticato.
Il mastro accoglieva tutto, era antico, curvo, silenzioso, con gli occhi azzurri dolci incavati nel suo volto scuro.
Arturo non conosceva l’amore, ma sapeva soffrire.
Conosceva l’odore dolce delle ragazze che passavano, con le gonne nel vento.
Arturo seguiva i movimenti del maestro con gli occhi attenti e produceva grandi silenzi.
Il maestro gli insegnò ad incidere i volti incantati delle donne.
Arturo scolpì la sua donna e la amò per sempre.
Le dedicò lunghe poesie d’amore, le scrisse canzoni.
Il maestro morì e Arturo prese in eredità la sua bottega.
La gente passava per vederlo lavorare.
Arturo intagliava e dormiva. Scultore meditabondo.
Scolpì la casa in cui abitò la sua donna. Scolpì loro figlio dai capelli ricci e bruni.
Scolpì la culla, i libri di scuola. Scolpì una montagna per portarlo a sciare. Scolpì giochi, altalene e un castello di sabbia. Scolpì un cane affettuoso dalla lunga coda.
Ma il figlio lo guardava con rabbia, perché desiderava essere vivo.
Arturo pianse a lungo, perché non sapeva che fare.
Lo portò in chiesa, ma il prete lo scambiò per matto e mise il figlio nella sua stanza mesta.
Lo tenne sul comò, seduto su una Bibbia dorata.
Arturo morì solo e lasciò un biglietto con scritto: Voglio essere seppellito sotto il tiglio dai rami gialli.
Il figlio lo cercò per perdonarlo, scappando dalla casa del prete.
La madre lo trovò sotto il tiglio, tanti anni dopo averlo perduto.
La pioggia li travolse e li trascinò nel mare.
Un bambino li trovò sulla spiaggia e disse: Anche io voglio imparare a fare degli omini belli così.
Il bambino crebbe e volle fare l’artista.
Andò in città e si perse in tutte le strade.
Trovò un maestro indulgente che coltivava fiori sul grande balcone.
Mangiava biscotti secchi e parlava di persone lontane, dal grande destino, tortuoso e triste, come i nodi del legno.
Il maestro era enorme e cantava e odorava di fresco.
Gli insegnò a scolpire i volti delle gente per sempre perduta.
Della gente venuta al mondo per vivere come le farfalle.
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