onda anomala
19 Aprile 2010 Share

onda anomala

 

E’nei periodi di vuoto, di scompenso esistenziale che la nostra sensibilità verso la poesia risulta particolarmente accesa: allora, meglio che se ci sentiamo paghi e sereni, affondiamo nell’incanto della parola poetica, gioiosa o dolorosa che sia, e ne cogliamo le balugini di bellezza e di verità.

Un’esperienza personale che so condivisa da tanti e credo condivisibile da altrettanti ancora.

Quando leggerete queste mie righe, usciremo da un Natale che ci avrà stipati di doni e stralci di panettoni, merci e smercio di ogni genere, ivi compresi sorrisi gaudenti e gesti affettuosi, più volatili che le foglie d’autunno. Pure, o proprio in virtù di questo pieno che alla fine trabocca, il Natale satollo cui ormai siamo assuefatti abbandona troppe anime più rotte e indigenti che prima, come un’onda anomala, potente, che depositi in riva al mare i cocci di una magnifica ammiraglia, irriconoscibili.

Così, dopo la festa e i suoi traumi da abuso, mi pare utile consiglio terapeutico un invito alla poesia, alla sua povera ma feconda ricchezza. La poesia, perché ci istruisce dell’essenziale, perché ci offre una compagnia duratura, di quelle che non sfuggono al primo soffio di calendario, perché la poesia diffonde in noi semi fertili di meditazione.

La poesia di questa puntata in misura speciale, perché più che altre supera il limite dell’individuo e del suo soggettivo sfogo e ci coinvolge in quanto uomini tutti e energicamente in una riflessione sull’intero universo, meccanismo grandioso di cui siamo parti, non le sole né le più importanti.

È alla lettura di Lucrezio e del suo De rerum natura che oggi, infatti, tenterò di persuadervi.

Non intendo annoiarvi con una lezione del tipo scolastico, magari pedante e comunque misera: sono studiosi e loro opere che lo possono raccontare assai meglio di me e con incomparabile cognizione di causa rispetto alla mia chi sia Lucrezio e cosa la sua opera. Solo, vorrei comunicarvi una passione umile ma ardente, la mia appunto, per la poesia di Lucrezio. Poche parole, dunque, necessarie ad una conoscenza di primo grado, superficiale, dell’autore e dell’opera, utili a rendervi ragione di un amore, cui spero partecipiate in futuro.

Lucrezio è poeta latino del primo secolo a.C., della cui vita possediamo scarse notizie, tra le quali, contenuta in una successiva biografia di San Girolamo e accreditata fino ad un recentissimo passato, quella secondo cui Lucrezio avrebbe scritto per intervalla insaniae, negli intermezzi di lucidità di una forma di pazzia: una notizia dal sapore leggendario, che non dice nulla della sublimità della poesia di Lucrezio più che la fama di follia del Tasso dica a riguardo dell’altezza della sua poesia, e che, tuttavia, conserva, anche oggi che gli studi di filologia si sono fatti più rigorosi, un fascino attrattivo, come se, unica, riuscisse a spiegare l’afflato quasi mistico, la vertigine di diversa sensibilità di cui è pervasa la poesia di Lucrezio. Mi piace credere che quella notizia sia fondata; mi piacerebbe che lo credeste anche voi.

L’opera di Lucrezio, il De rerum natura, è un poema, una narrazione continua in versi di ampia estensione, che ha per oggetto non fatti di guerra e di eroi, come era solitamente nell’antichità, ma una dottrina scientifica e filosofica insieme; dato strano, quest’ultimo, da coniugare con l’ipotesi della psicosi di Lucrezio, e che, perciò stesso, rende quell’ipotesi di tanto più avvincente.

Quindi, la poesia di Lucrezio è poesia didascalica, che istruisce, che detta scienza, che descrive la realtà delle cose, la natura, secondo che essa veniva configurata nella teoria filosofica del greco Epicuro, di cui Lucrezio è seguace e vuole farsi promotore a Roma. Una dottrina, l’ epicurea, che fondava sulla conoscenza della natura la garanzia di serenità dell’uomo: solo conoscendo l’effettiva realtà delle cose, nella prospettiva di Epicuro, l’uomo avrebbe potuto liberarsi da timori, aspettative o speranze infondati, e raggiungere così il grado sovrano di imperturbabilità, che costituisce il vero bene.

Ho esordito col parlare di poesia e ho proseguito con un invito alla poesia, né serve a smentirmi il fatto che il contenuto dell’opera di Lucrezio sia la scienza, la natura delle cose, che la scienza aspira a definire. È vero, infatti, che il De rerum natura è opera eminente di scienza e che il poema ha avuto un effetto fecondante sulle origine della riflessione scientifica moderna, ma è altrettanto vero che Lucrezio propone una concezione della natura tramontata, e, a valle, un’etica contestata, primi gli stessi Latini, e contestabile, centrata com’è su un materialismo che vuole guadagnare all’uomo la tranquillità per fine ultimo. 

Non è questo il merito, però. Mi importa, qui, ricordare la tuttora vitalissima valorizzazione poetica della realtà ottenuta da Lucrezio, il tono ispirato che investe nella sua descrizione, accanto ai più impressionanti spettacoli della natura e dell’esistenza umana, fenomeni dell’esperienza quotidiana,  almeno fino al tempo di Lucrezio estranei alla poesia elevata, quella epica fra tutte, e tradizionalmente relegate nei generi “minori”: Lucrezio è la prova raramente ripercorsa poi (e, però, Giordano Bruno!) che la scienza si può dettare con passione, con poesia, che un messaggio filosofico e scientifico può sposare precisione della dottrina e qualità letteraria.

Certo – accade nei componimenti estesi -, ci sono nel poema di Lucrezio parti più e meno riuscite. Ancora, l’attenzione all’intero campo del reale comporta essa stessa oscillazioni nello stile di scrittura, agitato da tendenze difformi, il pathos con cui Lucrezio abborda i più terrificanti spettacoli della natura, per esempio, o l’accento placido, quasi domestico, con cui egli riconduce tali fenomeni all’analogia con l’esperienza umana quotidiana; tuttavia, questa continua trasformazione stilistica è quanto mai adeguata a rispecchiare la realtà di un mondo in cui, drammaticamente, convivono gli aspetti più diversi e si risolve in una visione unitaria e possente, che è poi la cifra della sublimità di Lucrezio.

Le parole. Poco posso dire della lingua di Lucrezio. Insolubile problema di ogni traduzione, la percezione della qualità del sua lingua è inscindibile da una conoscenza diretta 

del latino. Solo ricordare, sperando nella forza del discorso, che riesca suadente, che quella di Lucrezio sulla lingua è una ricerca inesausta e ricchissima: indicazioni etimologiche, suggerimenti onomatopeici, accoppiamenti arditi, iterazioni e variazioni foniche, come le parole dovessero rincorrere la realtà. Uno studioso di Lucrezio parlava per il De rerum natura di “cattedrale verbale”: un testo poetico che si presenta quale specchio in miniatura del mondo reale e dove l’architettura dei suoni riproduce nei minimi dettagli la struttura della realtà.

Ma la poesia non è parole solamente, e suoni. E’ immagine, dettaglio, colore, movimento. E Lucrezio è poeta di incredibile potenza visiva, è poeta per immagini, che tutti, latino o non, possiamo guardare, per rimanerne incantati.

Il dispiegamento visivo del De rerum natura ha una radice dottrinaria, che Lucrezio svolge poi e arricchisce della sua inconfondibile marca poetica. Mi spiego. La fisica epicurea poggiava sull’idea che la conoscenza risiede nell’esperienza sensibile; questa stessa teoria fisica materialistica, però, presupponeva l’attività di enti invisibili, gli atomi, nuclei primi della materia. Per colmare la distanza tra percepibile ed impercettibile, in quanto infinitamente piccolo, gli epicurei ricorrevano al procedimento di induzione analogica, che dei casi, degli eventi dell’esperienza quotidiana faceva la chiave di accesso alla comprensione dei fenomeni invisibili. Di qui l’uso metaforico di immagini facilmente memorizzabili, tratte dall’esperienza familiare al lettore: esso agevola la comprensione e riduce il divario tra visibile e invisibile, tra noto ed ignoto. Un esempio celeberrimo di questo procedimento è fornito nel secondo libro del poema, dove l’incessante movimento degli atomi nel vuoto infinito è ricondotto all’analogia del pulviscolo che danza in un raggio di sole; o ancora nel libro terzo, quando Lucrezio, trattando dell’anima-soffio vitale che si ritira dal corpo al momento della morte, ricorre all’analogia di esalazioni ben percepibili dai sensi: il bouquet del vino, il fumo che si dissipa nell’aria. La galleria di immagini offerte da Lucrezio, però, non si esaurisce nell’analogia; Lucrezio poggia il suo sguardo di poeta-fotografo ovunque, anche su ciò che di per sé è chiaramente evidente o percepibile, ma che acquista dalla parola del poeta una plasticità, un colore, un movimento, un peso, ancora inesplorati: gli spettacoli maestosi e terribili offerti dai terremoti o le macabre immagini di morte, lo scintillio degli eserciti in manovra osservati dall’alto di un colle, lo splendore del cielo riflesso in una pozzanghera, i panni stesi ad asciugare, i panorami marini, i colori cangianti della coda del pavone, la tenerezza dei molossi verso i loro cuccioli; o, ancora, i ritratti di sensazioni  impercettibili, come è quando ci sentiamo bagnati dalla impalpabile nebbia notturna, o quando il passo leggero di una zanzara ci corre sul corpo; e poi le tante scene, dalla campagna o dalla città, corali molte, l’accalcarsi della folla agli spettacoli del circo e del teatro ad esempio, e dove, in forza del numero dei protagonisti, la drammaticità, che è tono preminente della poesia di Lucrezio, risulta intensificata in modo esponenziale.

Quasi concludo. Scoprire nel dettaglio il contenuto dell’opera, se mai vi avrò persuaso, spetta a voi, e poi sommariamente l’ho anticipato: una descrizione della natura e dell’uomo quale sua parte, il vuoto cosmico, quindi, e le combinazioni atomiche che originano le forme, secondo il credo epicureo, la dissoluzione dell’anima dopo la morte, la storia dell’incivilimento del genere umano dalle prime origini ferine, la spiegazione di vari fenomeni naturali, infine lo scenario cupo della peste che nel V sec. a.C. colpì Atene, prova incontestabile al pari dell’arida schiena del monte Vesuvio di Leopardi che la “madre” natura non provvede all’uomo, che nella materia non c’è fine altro che la materia stessa. Tutto attraversato dall’altalena di umori contrastanti che ogni fede materialista comporta: dal cupo pessimismo di fronte alla consapevolezza dell’oggettivo limite umano e della natura in generale, risolti interamente nella materia e sprovvisti di progetti divini a monte, all’entusiasmo ebbro per la liberazione da falsi timori o speranze infondate che questa medesima consapevolezza comporta e alla carica energetica che ne consegue.

Pensiamola come vogliamo: possiamo farla nostra questa teoria materialista o contrastarla, per essere troppo aderente alla nuda realtà fisica, perciò scura, angusta, priva dello spiraglio dell’oltre. Pure, ad essere onesti, dobbiamo riconoscerlo al materialismo di Lucrezio, ad ogni materialismo, un forte impulso al decoro della vita – e mi viene ancora in mente il Leopardi de “La ginestra”, col suo grido di protesta mai strozzato -: mentre sembra abbattere ed avvilire la nostra condizione umana, il materialismo di fatto propone una ulteriore chance di nobilitazione al nostro animo, che solo cosciente del confine intrinseco all’uomo-corpo, può ergersi sulla vile materia, reclamare su di essa la superiorità del raziocinio.

Un esempio, e davvero metto il punto. Uno dei più noti brani dell’opera è quello in cui Lucrezio descrive l’amore, una descrizione dal fascino potente e tremendo, che rappresenta l’amore come irrisolto desiderio di possesso dell’altro, che mai arriva a soddisfazione completa, perché l’altro, a differenza di acqua e cibo che possiamo ingerire e rendere parte di noi, non sarà mai noi stessi:

“E infatti persino nell’attimo del possesso / oscilla l’ardore degli amanti in un vagare indeterminato, / né sono certi di che prima godere con gli occhi e con le mani. / Ciò che inseguivano, lo schiacciano stretto, fanno male / al corpo, figgono a volte i denti dentro le labbra, / s’incollano le labbra, perché è puro piacere: ed esistono / impulsi nascosti che li spingono ad aggredire proprio l’oggetto, / qualunque, da cui sorgono i germi di quella furia…Come dentro i sogni l’assetato cerca di bere, e acqua / non gli viene data, che possa spegnere l’ardore delle membra, / ma si slancia a fantasmi di acque, e invano fatica, / e nel  mezzo di fiume impetuoso ha sete mentre beve, / così dentro l’amore Venere illude gli amanti, / e non riescono a saziare il corpo guardando quel corpo da presso, / né con le mani possono raschiar via cosa alcuna dalle tenere membra, / mentre vagano indeterminati per tutto il corpo.

Di qui, da questo buio nero, la conclusione luminosa, indotta e in parte esplicitata da Lucrezio, mia e spero vostra: che l’amore, per non essere motivo di vana sofferenza ed effimera illusione, deve trascendere la dimensione puramente fisica, e approdare in un altrove immateriale, lascio a voi se la ragione o lo spirito o cos’altro per essi.  Buona lettura. ☺

 

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