Creato dallo scrittore scozzese James M. Barrie nel 1902, Peter Pan è un bambino che vola e si rifiuta di crescere trascorrendo un’avventurosa infanzia senza fine sull’Isola che non c’è in compagnia di sirene, indiani, fate e pirati. Occasionalmente incontra bambini del mondo della realtà da dove egli stesso proviene essendo un bambino mai nato ed avendo trascorso i primi tempi della sua eterna infanzia nei Giardini di Kensington che, passata l’ora di chiusura, si popola di centinaia di fatine smemorate, capricciose, spaurite, fragili come fiori, tutte prese dalle loro faccende. Volando per Londra per recuperare la sua ombra, incontra Wendy e decide di portarla con sé sull’Isola suscitando la gelosia della sua amica Trilly. Wendy e i suoi fratellini passano lì un po’ di tempo tra emozioni e fantastiche avventure, finché sentono nostalgia di casa e decidono di tornare dai loro genitori rinunciando, con disappunto di Peter Pan, all’idea di restare per sempre fanciulli.
Bella è l’invenzione dell’Isola che non c’è dove si giunge con un viaggio aereo sulla fede di volare (volare è uguale a una possibilità illimitata di attuare i propri sogni): “La ragione per cui gli uccelli volano e noi no – si dice nella fiaba – dipende semplicemente dal fatto che essi hanno la fede perfetta e aver fede vuol dire avere le ali”. L’Isola che non c’è mi fa pensare all’utopia che non è, come vuole l’etimologia della parola, un non luogo cioè qualcosa che non c’è e chissà se ci sarà, ma il non ancora che può accadere e che bisogna che accada; è la coscienza della fattibilità della storia; è l’impossibile che può diventare possibile; è un mondo ideale che solo i bambini con la loro fantasia e i sognatori con lo sguardo di fanciulli possono scorgere. Il cantautore E. Bennato, nella sua canzone, ci dà le coordinate per arrivare all’Isola che non c’è: Seconda stella a destra, questo è il cammino e poi dritto fino al mattino, se ci credi ti basta perché poi la strada la trovi da te…
Il Padre del bambino che non voleva crescere, metafora della fanciullezza, della spavalderia giovanile, della spensieratezza, non ha creato semplicemente un personaggio ma ha pennellato un simbolo entrato nella vita di molti diventando l’emblema della paura di diventare adulto per non assumersi responsabilità, è la cosiddetta sindrome di Peter Pan, una condizione psicologica sempre più diffusa nella società moderna che niente ha a che fare con il fanciullino di pascoliana memoria presente in un cantuccio dell’anima di ciascuno di noi, capace di cogliere le piccole cose della realtà e guardare il mondo con stupore come se fosse la prima volta.☺
carolinamastrangelo51@gmail .com
Creato dallo scrittore scozzese James M. Barrie nel 1902, Peter Pan è un bambino che vola e si rifiuta di crescere trascorrendo un’avventurosa infanzia senza fine sull’Isola che non c’è in compagnia di sirene, indiani, fate e pirati. Occasionalmente incontra bambini del mondo della realtà da dove egli stesso proviene essendo un bambino mai nato ed avendo trascorso i primi tempi della sua eterna infanzia nei Giardini di Kensington che, passata l’ora di chiusura, si popola di centinaia di fatine smemorate, capricciose, spaurite, fragili come fiori, tutte prese dalle loro faccende. Volando per Londra per recuperare la sua ombra, incontra Wendy e decide di portarla con sé sull’Isola suscitando la gelosia della sua amica Trilly. Wendy e i suoi fratellini passano lì un po’ di tempo tra emozioni e fantastiche avventure, finché sentono nostalgia di casa e decidono di tornare dai loro genitori rinunciando, con disappunto di Peter Pan, all’idea di restare per sempre fanciulli.
Bella è l’invenzione dell’Isola che non c’è dove si giunge con un viaggio aereo sulla fede di volare (volare è uguale a una possibilità illimitata di attuare i propri sogni): “La ragione per cui gli uccelli volano e noi no – si dice nella fiaba – dipende semplicemente dal fatto che essi hanno la fede perfetta e aver fede vuol dire avere le ali”. L’Isola che non c’è mi fa pensare all’utopia che non è, come vuole l’etimologia della parola, un non luogo cioè qualcosa che non c’è e chissà se ci sarà, ma il non ancora che può accadere e che bisogna che accada; è la coscienza della fattibilità della storia; è l’impossibile che può diventare possibile; è un mondo ideale che solo i bambini con la loro fantasia e i sognatori con lo sguardo di fanciulli possono scorgere. Il cantautore E. Bennato, nella sua canzone, ci dà le coordinate per arrivare all’Isola che non c’è: Seconda stella a destra, questo è il cammino e poi dritto fino al mattino, se ci credi ti basta perché poi la strada la trovi da te…
Il Padre del bambino che non voleva crescere, metafora della fanciullezza, della spavalderia giovanile, della spensieratezza, non ha creato semplicemente un personaggio ma ha pennellato un simbolo entrato nella vita di molti diventando l’emblema della paura di diventare adulto per non assumersi responsabilità, è la cosiddetta sindrome di Peter Pan, una condizione psicologica sempre più diffusa nella società moderna che niente ha a che fare con il fanciullino di pascoliana memoria presente in un cantuccio dell’anima di ciascuno di noi, capace di cogliere le piccole cose della realtà e guardare il mondo con stupore come se fosse la prima volta.☺
Creato dallo scrittore scozzese James M. Barrie nel 1902, Peter Pan è un bambino che vola e si rifiuta di crescere trascorrendo un’avventurosa infanzia senza fine sull’Isola che non c’è in compagnia di sirene, indiani, fate e pirati. Occasionalmente incontra bambini del mondo della realtà da dove egli stesso proviene essendo un bambino mai nato ed avendo trascorso i primi tempi della sua eterna infanzia nei Giardini di Kensington che, passata l’ora di chiusura, si popola di centinaia di fatine smemorate, capricciose, spaurite, fragili come fiori, tutte prese dalle loro faccende. Volando per Londra per recuperare la sua ombra, incontra Wendy e decide di portarla con sé sull’Isola suscitando la gelosia della sua amica Trilly. Wendy e i suoi fratellini passano lì un po’ di tempo tra emozioni e fantastiche avventure, finché sentono nostalgia di casa e decidono di tornare dai loro genitori rinunciando, con disappunto di Peter Pan, all’idea di restare per sempre fanciulli.
Bella è l’invenzione dell’Isola che non c’è dove si giunge con un viaggio aereo sulla fede di volare (volare è uguale a una possibilità illimitata di attuare i propri sogni): “La ragione per cui gli uccelli volano e noi no – si dice nella fiaba – dipende semplicemente dal fatto che essi hanno la fede perfetta e aver fede vuol dire avere le ali”. L’Isola che non c’è mi fa pensare all’utopia che non è, come vuole l’etimologia della parola, un non luogo cioè qualcosa che non c’è e chissà se ci sarà, ma il non ancora che può accadere e che bisogna che accada; è la coscienza della fattibilità della storia; è l’impossibile che può diventare possibile; è un mondo ideale che solo i bambini con la loro fantasia e i sognatori con lo sguardo di fanciulli possono scorgere. Il cantautore E. Bennato, nella sua canzone, ci dà le coordinate per arrivare all’Isola che non c’è: Seconda stella a destra, questo è il cammino e poi dritto fino al mattino, se ci credi ti basta perché poi la strada la trovi da te…
Il Padre del bambino che non voleva crescere, metafora della fanciullezza, della spavalderia giovanile, della spensieratezza, non ha creato semplicemente un personaggio ma ha pennellato un simbolo entrato nella vita di molti diventando l’emblema della paura di diventare adulto per non assumersi responsabilità, è la cosiddetta sindrome di Peter Pan, una condizione psicologica sempre più diffusa nella società moderna che niente ha a che fare con il fanciullino di pascoliana memoria presente in un cantuccio dell’anima di ciascuno di noi, capace di cogliere le piccole cose della realtà e guardare il mondo con stupore come se fosse la prima volta.☺
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