Pietro: l’imperfezione della fede
29 Marzo 2014 Share

Pietro: l’imperfezione della fede

Se c’è un personaggio che ha subìto un’attenzione particolare nel Nuovo Testamento, anche quando si trattava di metterne in evidenza i difetti, questo è Simone figlio di Giovanni, soprannominato, da Gesù, Kefàs (Pietro), la Roccia, nome carico anche di una certa ironia, visti i tentennamenti, l’ottusità a volte dimostrata e infine il triplice rinnegamento nei confronti di Gesù, per paura di fare la sua stessa fine. Eppure proprio quel Pietro è stato scelto da Gesù come capo del gruppo dei dodici più vicini a lui, è stato coinvolto nelle vicende più intime di Gesù, insieme ai due “figli del tuono” Giacomo e Giovanni, è stato riconosciuto da tutti, dopo la morte di Gesù, come il capo autorevole della comunità. Non che dopo sia cambiato totalmente, se Paolo ha dovuto smascherarne l’incoerenza quando ad Antiochia Pietro ha cambiato modo di comportarsi nei confronti dei pagani per non sentirsi giudicato dal gruppo giudaico più rigorista legato alla figura di Giacomo, fratello di Gesù, ma aveva una caratteristica che lo rendeva capace di non perdersi totalmente: quella di saper chiedere scusa, di sapersi pentire, di scommettere sempre su una nuova possibilità.

Dal primo incontro con Gesù, quando riconosce di essere un peccatore, uno che non è perfetto (Lc 5,1-11), fino all’ultimo incontro quando, dopo averlo rinnegato, è uscito fuori per piangere a causa del tradimento dell’amico, Pietro incarna il vero credente, quello normale che incarna l’imperfezione della fede ben descritta nell’invocazione del padre di un ragazzo indemoniato che dice quasi gridando a Gesù: “Io credo, ma aiutami nella mia incredulità!” (Mc 9,24). Forse proprio per questo Gesù lo ha voluto a capo della sua comunità, una comunità non di rigoristi rompiscatole, ma una specie di “armata brancaleone” di poveri cristi, bisognosi sempre di una spinta per fare qualcosa di buono. Una comunità, insomma, di persone graziate da Dio, non di fondamentalisti che stanno a spaccare il capello in quattro, che in nome dell’Idea uccidono l’uomo e mettono la regola davanti alla vita reale. Pietro, dopo la risurrezione di Gesù, ha faticato a credere finché Lui non si è fatto vedere, a differenza dell’altro discepolo che ha creduto subito, appena ha visto la tomba vuota (Gv 20,3-8) e ha persino deciso di riprendere con sé la moglie (1 Cor 9,5) mentre quando Gesù era in vita si era vantato di aver lasciato tutto per seguirlo (Mc 10,28).

Non è che Pietro fosse una banderuola, anzi ha cercato di mantenere una sua fedeltà convinta anche alle regole della fede giudaica, mentre Paolo le aveva abbandonate (At 10,14); tuttavia, pur rimanendo sostanzialmente un giudeo, cambia modo di pensare su Dio, quando vede un pagano come Cornelio convertirsi: “Mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenza di persona” (At 10,34). Penso che Pietro abbia dovuto riconquistare ogni giorno la sua posizione di discepolo di Gesù, anche quando è diventato il punto di riferimento dei cristiani, fino alla sua morte, e così lo hanno voluto ricordare i cristiani, come ci attesta l’episodio apocrifo del Quo vadis, quando, nell’ultimo tentativo di fuga dalla morte incontra Gesù che, alla domanda (di Pietro) su dove stesse andando, rispose che andava di nuovo a morire a Roma, con i cristiani perseguitati. Al che Pietro, forse a malincuore, torna a Roma per morire martire. Gesù glielo aveva annunciato che sarebbe andato dove lui non voleva (Gv 21,18), parlando della sua morte e forse così è avvenuto realmente, perché Pietro non ha smesso di essere se stesso: un peccatore a cui Gesù ha dato sempre una nuova possibilità.

Se una parte consistente di cristiani ha voluto riconoscere in Pietro il “capostipite” di un ruolo di guida nella chiesa, cioè il papato, forse questo ci deve insegnare lo stile che la chiesa deve avere e, di conseguenza, cosa la chiesa deve chiedere alla società in cui vive: non valori immutabili che vengano imposti in modo talebano o vissuti ipocritamente, bensì la capacità di adattare i valori alle mutate circostanze, non vergognandosi di ammettere di avere sbagliato nell’assumere determinate posizioni o nell’aver approvato alcune cose o appoggiato alcuni movimenti. L’infallibilità di cui il papa è depositario è legata strettamente alla capacità di continuare a guardare a Gesù, anche quando si fanno scelte sbagliate e tuttavia, proprio perché si ama Gesù senza riserve (Gv 20,15-17), si ha la capacità di rimettersi sulla strada giusta. Mai come oggi, nella figura di un papa come Francesco possiamo ritrovare lo stile di Pietro, di colui cioè, che proprio perché conscio della sua debolezza, può trattare con misericordia coloro che sbagliano. A un papa che ci riporta alle origini speriamo corrisponda sempre più una chiesa in cui tutti sappiano dire, parafrasando Agostino di Ippona: se ce l’hanno fatta Pietro e i suoi successori, perché non io?☺

 

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