povertà e solidarietà di Chiara D'Amico - Monica di Tota | La Fonte TV
Entrare per la prima volta in una favela può essere sconvolgente per chi arriva dall’Italia del “benessere” e tante cose, in molti casi, non le vede neppure in tv, perché, diciamocelo, anche la povertà sbattuta in faccia dai documentari e dai reportage televisivi è scomoda. Poi ricevi una mail con un invito ad andare in Argentina a festeggiare il 35° anniversario della lotta delle Madres de Plaza de Mayo, le mamme degli oltre trentamila desaparecidos della giunta militare che ha governato dal 1976 al 1983, e ti fai abbracciare dall’idea di andare a visitare i luoghi in cui ha vissuto, prestato la sua opera sacerdotale e solidale ed infine è stato ucciso Padre Giuseppe Tedeschi.
Giuseppe Tedeschi nacque a Jelsi il 3 marzo 1934 e all’età di 14 anni emigrò con la mamma e i quattro fratelli in Argentina dove li aspettava il papà partito un anno prima. Decise di entrare in seminario per prendere i voti e poter continuare a studiare e da subito rivolse la sua attività pastorale verso i più poveri e gli ultimi delle favelas. In particolare prestò la sua opera missionaria a Villa Itatì, nel quartiere Don Bosco di Quilmes, una città alle porte di Buenos Aires, dove il 2 febbraio del 1976 fu preso da uno squadrone militare e ucciso. In suo ricordo circa otto anni fa è nata a Campobasso un’associazione sociale, culturale e di volontariato che cerca di portare i molisani a conoscenza di questa figura così poco nota ma che tanto ha fatto per gli ultimi dell’Argentina.
Villa (si legge vigia) Itatì – un nome che ti fa immaginare un posto piacevole dove vivere – è una favela in cui vivono oltre 50.000 persone in dieci ettari di terreno con un dislivello di 11 metri intorno ad una zona paludosa. Per poter entrare ci siamo dovute far accompagnare da Coco Romanin, un assistente sociale che da otto anni lavora nella “cartoniera”, la fabbrica in cui circa 70 persone si guadagnano da vivere riciclando cartoni e plastica, e che ha preso in qualche modo il posto di Padre Pepe come gli abitanti della Villa ancora chiamano Giuseppe Tedeschi.
Siamo entrati da un sentiero di terra e sassi, abbiamo camminato sui 400 metri di asfalto fatti realizzare da padre Pepe quasi 40 anni fa, siamo state in visita al Pronto Soccorso, alla Biblioteca e all’Associacion de Fomento intitolate a suo nome.
Ma soprattutto abbiamo parlato – e ci siamo commosse – con chi lo ha conosciuto, chi ancora oggi dopo 36 anni non riesce a dimenticare il giorno in cui sono venuti a portarlo via, con chi è cresciuto grazie ai 900 litri di latte che ogni giorno riusciva a far arrivare nella Villa, chi ha imparato il mestiere di falegname da lui che a sua volta lo aveva appreso dal papà. E ci siamo ritrovate a piangere, emozionate e commosse, ascoltando i racconti di Renzo Tedeschi, fratello di Josè, che con la voce rotta e negli occhi ancora l’orrore, ci ha raccontato lo strazio di quel corpo torturato disteso sul lettino dell’obitorio di La Plata, di quel volto reso irriconoscibile dal colpo alla testa che lo aveva ucciso, con la speranza, durata 15 giorni, che quello non fosse Josè e infine il dolore per la perdita di quel fratello tanto amato.
Oggi, al ritorno, dopo il superamento del fuso orario e la stanchezza, siamo sommerse dalle emozioni e dalla consapevolezza che cercare di seguire le orme di un uomo che ha dato la sua vita per i poveri, i disadattati, gli ultimi del mondo, sia la scelta più giusta e coraggiosa in questo momento così difficile per tutti, per il bimbi degli orfanotrofi di Touboro e Ngaoundéré in Camerun, per i nostri immigrati, per i nuovi disadattati e per quanti, nel nostro piccolo, riusciremo a consolare.
*Associazione Sociale e Culturale “Giuseppe Tedeschi” Onlus
associazionetedeschi@gmail.com
Entrare per la prima volta in una favela può essere sconvolgente per chi arriva dall’Italia del “benessere” e tante cose, in molti casi, non le vede neppure in tv, perché, diciamocelo, anche la povertà sbattuta in faccia dai documentari e dai reportage televisivi è scomoda. Poi ricevi una mail con un invito ad andare in Argentina a festeggiare il 35° anniversario della lotta delle Madres de Plaza de Mayo, le mamme degli oltre trentamila desaparecidos della giunta militare che ha governato dal 1976 al 1983, e ti fai abbracciare dall’idea di andare a visitare i luoghi in cui ha vissuto, prestato la sua opera sacerdotale e solidale ed infine è stato ucciso Padre Giuseppe Tedeschi.
Giuseppe Tedeschi nacque a Jelsi il 3 marzo 1934 e all’età di 14 anni emigrò con la mamma e i quattro fratelli in Argentina dove li aspettava il papà partito un anno prima. Decise di entrare in seminario per prendere i voti e poter continuare a studiare e da subito rivolse la sua attività pastorale verso i più poveri e gli ultimi delle favelas. In particolare prestò la sua opera missionaria a Villa Itatì, nel quartiere Don Bosco di Quilmes, una città alle porte di Buenos Aires, dove il 2 febbraio del 1976 fu preso da uno squadrone militare e ucciso. In suo ricordo circa otto anni fa è nata a Campobasso un’associazione sociale, culturale e di volontariato che cerca di portare i molisani a conoscenza di questa figura così poco nota ma che tanto ha fatto per gli ultimi dell’Argentina.
Villa (si legge vigia) Itatì – un nome che ti fa immaginare un posto piacevole dove vivere – è una favela in cui vivono oltre 50.000 persone in dieci ettari di terreno con un dislivello di 11 metri intorno ad una zona paludosa. Per poter entrare ci siamo dovute far accompagnare da Coco Romanin, un assistente sociale che da otto anni lavora nella “cartoniera”, la fabbrica in cui circa 70 persone si guadagnano da vivere riciclando cartoni e plastica, e che ha preso in qualche modo il posto di Padre Pepe come gli abitanti della Villa ancora chiamano Giuseppe Tedeschi.
Siamo entrati da un sentiero di terra e sassi, abbiamo camminato sui 400 metri di asfalto fatti realizzare da padre Pepe quasi 40 anni fa, siamo state in visita al Pronto Soccorso, alla Biblioteca e all’Associacion de Fomento intitolate a suo nome.
Ma soprattutto abbiamo parlato – e ci siamo commosse – con chi lo ha conosciuto, chi ancora oggi dopo 36 anni non riesce a dimenticare il giorno in cui sono venuti a portarlo via, con chi è cresciuto grazie ai 900 litri di latte che ogni giorno riusciva a far arrivare nella Villa, chi ha imparato il mestiere di falegname da lui che a sua volta lo aveva appreso dal papà. E ci siamo ritrovate a piangere, emozionate e commosse, ascoltando i racconti di Renzo Tedeschi, fratello di Josè, che con la voce rotta e negli occhi ancora l’orrore, ci ha raccontato lo strazio di quel corpo torturato disteso sul lettino dell’obitorio di La Plata, di quel volto reso irriconoscibile dal colpo alla testa che lo aveva ucciso, con la speranza, durata 15 giorni, che quello non fosse Josè e infine il dolore per la perdita di quel fratello tanto amato.
Oggi, al ritorno, dopo il superamento del fuso orario e la stanchezza, siamo sommerse dalle emozioni e dalla consapevolezza che cercare di seguire le orme di un uomo che ha dato la sua vita per i poveri, i disadattati, gli ultimi del mondo, sia la scelta più giusta e coraggiosa in questo momento così difficile per tutti, per il bimbi degli orfanotrofi di Touboro e Ngaoundéré in Camerun, per i nostri immigrati, per i nuovi disadattati e per quanti, nel nostro piccolo, riusciremo a consolare.
*Associazione Sociale e Culturale “Giuseppe Tedeschi” Onlus
povertà e solidarietà di Chiara D’Amico – Monica di Tota
di
Entrare per la prima volta in una favela può essere sconvolgente per chi arriva dall’Italia del “benessere” e tante cose, in molti casi, non le vede neppure in tv, perché, diciamocelo, anche la povertà sbattuta in faccia dai documentari e dai reportage televisivi è scomoda. Poi ricevi una mail con un invito ad andare in Argentina a festeggiare il 35° anniversario della lotta delle Madres de Plaza de Mayo, le mamme degli oltre trentamila desaparecidos della giunta militare che ha governato dal 1976 al 1983, e ti fai abbracciare dall’idea di andare a visitare i luoghi in cui ha vissuto, prestato la sua opera sacerdotale e solidale ed infine è stato ucciso Padre Giuseppe Tedeschi.
Giuseppe Tedeschi nacque a Jelsi il 3 marzo 1934 e all’età di 14 anni emigrò con la mamma e i quattro fratelli in Argentina dove li aspettava il papà partito un anno prima. Decise di entrare in seminario per prendere i voti e poter continuare a studiare e da subito rivolse la sua attività pastorale verso i più poveri e gli ultimi delle favelas. In particolare prestò la sua opera missionaria a Villa Itatì, nel quartiere Don Bosco di Quilmes, una città alle porte di Buenos Aires, dove il 2 febbraio del 1976 fu preso da uno squadrone militare e ucciso. In suo ricordo circa otto anni fa è nata a Campobasso un’associazione sociale, culturale e di volontariato che cerca di portare i molisani a conoscenza di questa figura così poco nota ma che tanto ha fatto per gli ultimi dell’Argentina.
Villa (si legge vigia) Itatì – un nome che ti fa immaginare un posto piacevole dove vivere – è una favela in cui vivono oltre 50.000 persone in dieci ettari di terreno con un dislivello di 11 metri intorno ad una zona paludosa. Per poter entrare ci siamo dovute far accompagnare da Coco Romanin, un assistente sociale che da otto anni lavora nella “cartoniera”, la fabbrica in cui circa 70 persone si guadagnano da vivere riciclando cartoni e plastica, e che ha preso in qualche modo il posto di Padre Pepe come gli abitanti della Villa ancora chiamano Giuseppe Tedeschi.
Siamo entrati da un sentiero di terra e sassi, abbiamo camminato sui 400 metri di asfalto fatti realizzare da padre Pepe quasi 40 anni fa, siamo state in visita al Pronto Soccorso, alla Biblioteca e all’Associacion de Fomento intitolate a suo nome.
Ma soprattutto abbiamo parlato – e ci siamo commosse – con chi lo ha conosciuto, chi ancora oggi dopo 36 anni non riesce a dimenticare il giorno in cui sono venuti a portarlo via, con chi è cresciuto grazie ai 900 litri di latte che ogni giorno riusciva a far arrivare nella Villa, chi ha imparato il mestiere di falegname da lui che a sua volta lo aveva appreso dal papà. E ci siamo ritrovate a piangere, emozionate e commosse, ascoltando i racconti di Renzo Tedeschi, fratello di Josè, che con la voce rotta e negli occhi ancora l’orrore, ci ha raccontato lo strazio di quel corpo torturato disteso sul lettino dell’obitorio di La Plata, di quel volto reso irriconoscibile dal colpo alla testa che lo aveva ucciso, con la speranza, durata 15 giorni, che quello non fosse Josè e infine il dolore per la perdita di quel fratello tanto amato.
Oggi, al ritorno, dopo il superamento del fuso orario e la stanchezza, siamo sommerse dalle emozioni e dalla consapevolezza che cercare di seguire le orme di un uomo che ha dato la sua vita per i poveri, i disadattati, gli ultimi del mondo, sia la scelta più giusta e coraggiosa in questo momento così difficile per tutti, per il bimbi degli orfanotrofi di Touboro e Ngaoundéré in Camerun, per i nostri immigrati, per i nuovi disadattati e per quanti, nel nostro piccolo, riusciremo a consolare.
*Associazione Sociale e Culturale “Giuseppe Tedeschi” Onlus
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