Presenze alate
29 Marzo 2014 Share

Presenze alate

… Ah, gentile morte,

non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro:

tutta la mia infanzia è passata sullo smalto

del suo quadrante, su quei fiori dipinti;

non toccare le mani, il cuore dei vecchi.

Salvatore Quasimodo, Lettera alla madre

Il terremoto del 2002, dandomi lo sfratto dalle vecchie mura della mia casa, mi ferì al cuore. Rimossi il mio dolore – ben poca cosa rispetto all’immensa tragedia del crollo della scuola – e mi misi alla ricerca di un altro alloggio. E solo quando nella nuova abitazione mi vidi circondata dalle cose di sempre, sentii venir meno l’angoscia. Ritrovarsi fra le vecchie cose cui abbiamo dato un’anima col nostro amore ci consola, ci rassicura.

Le tante cose che ci fanno compagnia da un tempo più o meno remoto non sono banali accessori: sono parte di noi stessi, ci rispecchiano (non siamo stati noi a sceglierle? non le abbiamo conservate per il nostro piacere?), ci raccontano di tempi lontani in cui eravamo “altri”, introducendoci nel mondo onirico della memoria, dove ci perdiamo dietro una folla d’immagini che, con un misto di tremore e desiderio, ci sforziamo di mettere a fuoco nella presunzione di comporle in un mosaico che ci rappresenti.

Da vecchi il recupero del passato è un’esigenza dell’anima che vuole conoscere se stessa. In questa ricerca mai finita di sé i ricordi, cose e situazioni umane, acquistano un senso e un valore.

Mentre scrivo non posso fare a meno di pensare alle tante cose che non ho portato con me, ma riempiono gli scatoloni depositati in un magazzino. In uno di essi c’è un vecchio servizio da caffè di fine porcellana bianca con decori blu. Risale a un antenato vissuto fra il settecento e l’ottocento: in famiglia è stato sempre usato con estrema cura per il suo valore di testimonianza. Sfortunatamente mia madre ne ruppe due tazze, ma non ne gettò i frammenti: li avvolse in carta di giornale e li conservò gelosamente. In quel “vecchio” servizio tutti in casa, con una punta di orgoglio, vedevamo la durata, la stabilità, la quotidianità della famiglia.

È da anni che mi chiedo dove sia mai finito un ritratto ingiallito dal tempo che si trovava nello studio del nonno. Forse sarà andato perduto in uno dei tanti restauri della casa. Mi piaceva perché era un disegno eseguito dal nonno quando era studente. Raffigurava il busto di un giovane gentiluomo, il volto serio, il mento adorno di una folta barba. In basso si leggeva: “Dessin à deux crayons – IV ginnasio – Giovannangelo Santojanni”. Caro il mio vecchio nonno! Sei stato, quando ero bambina, il mio mito, la tenerezza in persona, il padre che mi mancava. La tua immagine di mitezza presiede ora alla mia vecchiaia. Se “invecchiare è una forma d’arte”, come sostiene James Hillman nel suo affascinante saggio “La forza del carattere”, mio nonno si è rivelato in tal senso un autentico artista. Mai avvilito, senza rancore verso la vita che lo aveva messo a dura prova. La morte lo aveva toccato più volte negli affetti più cari strappandogli, ancora minorenne, entrambi i genitori e poi, padre pieno di attese, tutti e quattro i figli maschi. Eppure era giunto alla sua età maturando una serenità, una semplicità tale da conquistare il cuore della nipotina lasciata alle sue cure.

I ricordi non si offrono a sostenere come immobili cariatidi il peso del nostri anni, ma come presenze alate uscite dal bozzolo del passato a trasfigurarsi in sogni che fanno camminare la vita. ☺

eoc

eoc