Proprietà e diritto
31 Marzo 2015 Share

Proprietà e diritto

Il termine proprietà ha oggi qualcosa di magico: quando dico di qualcosa è mio, dico in realtà che questo qualcosa è mio in eterno e ne posso fare quello che credo. Ogni interferenza in questo speciale rapporto fra me e il mio viene sentita come violazione di me stesso e della mia libertà. Ogni limitazione all’uso o alla modifica della proprietà viene sentita come una violazione del mio diritto di disporre liberamente delle mie cose.

Questa magia o sacralità della proprietà è in realtà un’idea molto recente, non più vecchia di quattro secoli nella tradizione cristiana come nella filosofia occidentale, e per di più è discutibilissima. Nessuna cosa è per sua natura “mia”. L’idea di mio può nascere solo in un rapporto sociale strutturato: il suo di qualcuno ha senso solo all’interno di un gruppo umano che instaura una relazione speciale fra un suo membro e una cosa. Il diritto di proprietà vive solo all’interno di una realtà sociale data, e ognuna lo definisce  in modo diverso.

La proprietà, dunque, non indica altro che una relazione fra una serie di atti considerati socialmente e giuridicamente rilevanti, e una serie di conseguenze che il diritto attribuisce a certi atti. Gli atti possono essere diversi: per esempio un contratto di compra-vendita, un’eredità, un’elargizione, un possesso di fatto che dura da lungo tempo (la cosiddetta prescrizione). Ogni società può riconoscere solo alcuni atti e non altri. Anche le conseguenze possono essere diverse in società diverse: vi sono proprietà che non si possono vendere, come per esempio beni artistici tutelati dallo Stato; oppure che non si possono modificare, come alcuni edifici. Vi sono proprietà riconosciute solo per un certo numero di anni, come la proprietà dei terreni o degli edifici; oppure riconosciute solo fino a un certo valore, come l’eredità o i guadagni di capitale; vi sono cose (o diritti) che non possono essere oggetto di proprietà.

In molte culture la proprietà non viene riconosciuta a singoli individui, ma solo a gruppi come famiglie, clan, villaggi. Più in generale si può dire che il termine proprietà indica certo una relazione fra persone (o gruppi) e cose (o diritti), relazione socialmente accettata e garantita, ma i contenuti di tale relazione variano da società (in genere gli Stati) a società, secondo le tradizioni e i bisogni particolari di ciascuna di esse. In questo senso la proprietà è una funzione sociale. L’espressione spesso ripetuta della dottrina sociale cattolica: la proprietà ha anche una funzione sociale è inesatta. La proprietà non ha anche una funzione sociale ma è strumento della vita sociale: la sua funzione primaria è il bene della società. Il diritto di proprietà non è né sacro né naturale; è sempre strumento per attuare il bene comune: solo in questo senso è naturale.

Prima di dire mio

Precisa e ricca è la dottrina della grande tradizione cristiana, dalla Scrittura ai Padri della Chiesa, a Tommaso e ancora alla seconda Scolastica (es. in F. Suarez). Per i Padri, chi è ricco in un paese di poveri è un ingiusto, un ladro; e se uno ha ereditato, era ladro suo padre o suo nonno (così san Giovanni Crisostomo, forse il vero precursore della Caritas). La proprietà non è mai condannata in sé: è sempre condannata la proprietà non subordinata in primo luogo al bene di tutti i membri della comunità. Il teorizzatore più preciso e autorevole nel quadro dell’annuncio cristiano è Tommaso d’Aquino (Somma Teologica, II-II, questione 66). L’unico vero padrone e signore – dominus – di tutti i beni della terra è Dio che ha creato i beni perché siano disponibili per tutta la famiglia umana: un dominio assoluto, sacro e inviolabile del singolo uomo su beni terreni è perciò inconcepibile. Tuttavia l’uomo può esser considerato dominus perché creato da Dio con la capacità di adattare i mezzi a un fine, e perciò ha il diritto e il compito di usare e modificare i beni terreni in vista del fine che Dio propone.

Il ragionamento di Tommaso non riguarda qui il diritto di proprietà del singolo, ma semplicemente il diritto di dominio dell’uomo in generale sui beni terreni, nel quadro del supremo dominio di Dio. Questo, e solo questo, è il diritto naturale di proprietà in Tommaso (ivi, art. 1). Sarà poi compito della società assegnare una titolarità giuridica di singoli beni a singoli membri, perché i beni disponibili siano meglio utilizzati e distribuiti, e perché sia salvaguardata la pace sociale. Il diritto di proprietà è visto come strumento di realizzazione del bene comune, regolato da leggi umane in modo che tutto il corpo sociale possa godere dei beni disponibili. Ma il singolo, pur avendo un titolo giuridico, deve sempre considerare i suoi beni come comuni: ha cioè il dovere di dare a chi si trova nel bisogno (ivi, art. 2). Si tratta di un dovere di giustizia, non di un dovere di elemosina: nel momento in cui la mia proprietà si incontra con l’indigenza altrui, questa proprietà non è più mia. È tanto ladro chi ruba le cose altrui, quanto chi non dà spontaneamente del proprio a chi è nel bisogno.

Un diritto naturale

Oggi sembra che nulla di tutto questo turbi la coscienza dei cristiani. Vi è una ragione precisa: nel secolo XVII matura, in Europa, una concezione radicalmente diversa della proprietà privata e del relativo diritto. Per J. Locke il diritto di proprietà è un diritto naturale – insieme a quello alla vita e alla libertà – che lo Stato (responsabile del bene comune) non può toccare: anzi, lo Stato nasce proprio per tutelare i diritti naturali dei singoli membri. La logica di Tommaso si è capovolta. Ora la società è costruita per difendere la proprietà privata, mentre prima la proprietà era considerata come strumento di realizzazione del fine della società. Questo completo stravolgimento della tradizione cristiana passa purtroppo nei manuali di teologia morale fino a dopo la Gaudium et spes, cioè dalla fine del 1600 al 1965: tutti i preti, i catechismi, la predicazione, insistono sulla intangibilità della proprietà privata. La difesa di questa diviene il principale argomento della morale economica. Solo con il Concilio e la Gaudium et spes si ha un vero ritorno al Vangelo e a Tommaso: ma la dottrina conciliare sembra che faccia fatica, ancora oggi, ad essere accolta nell’annuncio morale cristiano.

Il tema è affrontato al n. 69 di Gaudium et spes: “Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, cosicché i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, avendo come guida la giustizia e compagna la carità”. È il progetto del Creatore da cui nessuno può deviare: è l’unico diritto naturale circa la proprietà. La partecipazione dei beni a tutti è un dovere di giustizia, ben superiore alla giustizia concepita in pratica solo come tutela della proprietà nei rapporti fra privati. Non solo: tale dovere di giustizia, tale partecipazione a tutti, riguarda certo – e rigorosamente – un’equa partecipazione ai beni terreni di tutti i cittadini di uno Stato. Ma riguarda anche, e prima di tutto, la convivenza dell’intera famiglia umana: oggi la produzione e la distribuzione dei beni terreni avviene a livelli planetari e deve esser vista, perciò, come elemento essenziale della giustizia all’interno di quel nuovo corpo sociale che è la famiglia umana. Il concilio parla di “bene comune del genere umano” (n. 78), e di destinazione dei beni terreni “all’uso di tutti gli uomini e popoli”.

Limitata e orientata

Così la proprietà privata, proprio per diritto naturale, è sempre limitata e orientata al conseguimento del progetto divino: “Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli in vista delle diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre ottemperare a questa destinazione universale dei beni” (n. 69). Non vi è niente di sacro nella proprietà privata: sacro è invece ogni essere umano sia come membro del mio Stato sia come membro della famiglia umana. Emerge dal Concilio una prospettiva nuova: una forma di proprietà, o di dominio sui beni terreni, sia pur modesta, è necessaria all’uomo per esercitare la propria libertà, per essere se stesso. Chiunque ha incontrato i miseri della terra sa che la miseria non è solo affamante, ma è anche profondamente disumanizzante. E dunque “la proprietà privata o un qualche potere sui beni terreni assicurano a ciascuno una zona del tutto necessaria di autonomia personale e familiare, e devono considerarsi come un prolungamento della libertà umana” (n. 71). Questa giustificazione della proprietà è un tema del tutto nuovo rispetto all’intera tradizione morale cristiana: un qualche pur modesto accesso alla proprietà è parte integrante dei diritti dell’uomo. Diritto naturale non è il diritto di proprietà, ma diritto naturale e divino è il diritto alla proprietà.

A conclusione si dovrebbe dire, forse, che la grande maggioranza dei cristiani – operatori economici e clero in testa – non hanno mai preso in seria considerazione né la Scrittura né il Magistero☺

(liberamente tratto da Enrico Chiavacci: Lezioni brevi di etica sociale)

 

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