proteo
6 Marzo 2010 Share

proteo

 

Proteo era una divinità del mare; per volere di Poseidone, signore delle acque, era custode di foche e altre creature dell’abisso. Possedeva un dono eccezionale: quello di predire il futuro. Era però così restio alle rivelazioni che per ricevere da lui una qualsiasi profezia bisognava assolutamente non temerne le trasformazioni. Proteo infatti, per sfuggire alle domande che gli venivano continuamente rivolte, aveva avuto in dono anche la straordinaria capacità di assumere forme diverse, e poteva trasformarsi di volta in volta in “ogni cosa che in terra si muove, sia acqua sia fuoco che prodigioso fiammeggia”. Così dice di lui Omero nel libro IV dell’Odis- sea, quando Menelao riesce finalmente ad afferrarlo e, condizione indispensabile, a trattenerlo per conoscere da lui non solo la sorte degli eroi greci in fuga da Troia, ma soprattutto come placare l’onnipotente Zeus che gli impediva il ritorno in patria. Anche l’apicultore Aristeo piange disperato la perdita delle proprie api, finché la madre Cirene, ninfa del fiume, intercede per lui affinché venga accolto nelle profondità marine. Aristeo dovrà lottare non poco contro le trasformazioni di Proteo e solo dopo reiterati tentativi lo costringerà a svelargli la causa della malattia delle api e otterrà precise indicazioni per farle rinascere.

Sia Menelao che Aristeo hanno bisogno, dinanzi ad una difficoltà del vivere, di rimodulare la loro esperienza, di riadattare i loro strumenti cognitivi. Devono superare una prova. E per far ciò hanno bisogno di “conoscere”. Il mito di Proteo diventa così metafora della conoscenza, instabile, mutevole, in perenne e continua trasformazione. Proteo rappresenta, nella sua continua e repentina metamorfosi, la varietà delle sembianze paradossali che la realtà assume, dei confini incerti e sfumati che insidiano la solida oggettività delle cose.

Afferrare Proteo significa quindi impossessarsi della strategia per interpretare e dominare il reale.

Come qualsiasi costruzione dell’immaginario, il mondo che questi racconti presuppongono, pur configurandosi come fantastico, ha il potere di presentarsi ancora oggi come incredibilmente certo. Il racconto mitologico deve lottare contro un odierno pseudosapere che ha disincantato la maniera in cui guardiamo la realtà e ci ha insegnato a diventare sì veloci nella risoluzione di faccende pratiche, ma meno capaci di adattarci alla trasformazione che avanza. E allora la forza del mito consiste proprio in questo: nel suggerire che per abbandonare la condizione di dubbio e incertezza e arrivare ad uno stato di consapevolezza e di maturazione, bisogna fare come Menelao e Aristeo, afferrare la conoscenza, o Proteo che dir si voglia, e non ostinarsi a riproporre, a fronte di problemi nuovi, soluzioni ritenute valide, perché già sperimentate. Esse appartengono a sistemi di pensiero, ad ideologie sorpassate quando non ripudiate, e ci fanno somigliare a quegli scribi costretti a vergare sempre lo stesso palinsesto, la pergamena raschiata e riutilizzata più volte perché troppo costosa.

Inoltre ad una realtà percepita come blocco monolitico si era opposto anche Eraclito, filosofo vissuto cinque secoli prima di Cristo. Egli colse l’intimo dramma che agita le cose ed esse gli apparvero in continuo divenire; la lotta ne era il principio generale ed aveva la sua ragione nella opposizione che c’è, ad esempio, tra luce e tenebre, estate e inverno, destra e sinistra.

Presi dal fascino della concretezza abbiamo smesso di fantasticare e ci ritroviamo purtroppo fermi in una stagnante fissità, incapaci di sperimentare la trasformazione in relazione a ciò che muta intorno a noi. Eppure, come ammoniva ancora Eraclito, è nel mutamento che le cose si riposano. Non bisogna aver paura di cambiare. ☺

annama.mastropietro@tiscali.it

 

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