Psichiatria e psicoterapia
15 Giugno 2018
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Psichiatria e psicoterapia

In un testo del 1967 raccolto in un volume a cura di F. Basaglia, Michele Risso affronta la questione del rapporto tra psichiatria e psicoterapia in ambito istituzionale, con un’ovvia attenzione per l’innovativo setting rappresentato dalla comunità terapeutica. L’interesse di questo contributo si inscrive nel filone della critica allo statuto epistemologico e scientifico della psichiatria e della relazione complessa che essa intrattiene con la medicina. La sostanza di queste analisi risiede nell’attacco alla semplificazione estrema che viene attuata per tradurre strumenti e prassi direttamente dalla medicina generale in quella psichiatrica, con una scarsa considerazione delle clamorose differenze che esistono tra i due ambiti. La conseguenza concreta è la distorsione del sistema diagnostico e dei relativi interventi terapeutici; uno dei risultati, ancora oggi visibilissimo, è l’esplosione della “speranza riposta nelle terapie somatiche”. Si tratta della farmacoterapia radicale, della eziopatogenesi schiacciata sulla dimensione neurobiologica e genetica, degli interventi esclusivamente correttivi in chiave pedagogica, a cui ancora oggi assistiamo. Bisogna aggiungere – e non è un dettaglio anacronistico – che tale attenzione perversa per il quadro fisiologico e la collocazione topografica e neuronale della malattia mentale ha “distratto l’ attenzione degli psichiatri dal problema delle istituzioni psichiatriche”: in definitiva, a che punto siamo con la riflessione intorno allo statuto sociale, culturale e politico della comunità terapeutica? Difficile dirlo, presi come siamo dal discorso burocratico e valutativo, spinto ai suoi eccessi da tecnicismi che invadono il campo politico, scientifico e culturale.

Altro elemento interessante dell’ articolo riguarda la dialettica tra psichiatria e psicoanalisi: quest’ultima ha sfondato il muro dell’omologazione del paziente imposto da una certa concezione della psichiatria, iniettando nei luoghi di cura “la storia, e non soltanto la clinica, del malato”, tentando di “rendere chiare le dinamiche psicologiche che hanno preceduto il manifestarsi di sintomi psicopatologici conclamati”.

Un terzo punto di grande attualità, riguarda la discussione sull’ambiente di cura: anche una psicoterapia di matrice psicoanalitica, con le caratteristiche che ne contraddistinguono ispirazioni teoriche, ideali e prassi, non può attaccare il nucleo della psicosi, se non è contemplata la possibilità di operare in un ambiente psicoterapico in senso ampio. Ciò vuol dire che è a un’etica psicoanalitica che bisogna puntare, alla gestione dei fattori tecnici di intervento, ma anche a quelli a-specifici, cioè informali, che se ben governati possono essere istanze potenzialmente evolutive. Dunque, non tutta la terapia può essere compresa sotto l’ombrello della formalizzazione di prassi e protocolli.

In conclusione, il movimento di protesta e critica dell’istituzione di cura ci lascia importanti tracce non solo della decostruzione della “violenza” dell’ ospedale psichiatrico, ma anche delle micro-pratiche che un potere-sapere può dispiegare al di là della coercizione, della segregazione e della segmentazione sociale; si tratta, oggi, di affrontare il tema della terapia e riabilitazione in istituzione con un occhio ai sistemi di valutazione e di correzione pedagogica, partendo dal presupposto che il discorso egemone intende tagliar fuori quelle scienze che insistono a considerare il Soggetto il vero protagonista di ogni Cura. Una certa etica psicoanalitica e gli strumenti a sua disposizione sembrano ancora l’ultimo baluardo contro il riduzionismo. Solo la psicoanalisi, insomma, fa resistenza all’ egemonia della psichiatria organicista e alle pedagogie correttive, inserendo la particolarità del soggetto dentro l’istituzione di cura, mitigandone la dimensione totalizzante e compiendo la mediazione tra l’universalità della scienza e la singolarità soggettiva.☺

 

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