Realismo e astrazione
9 Febbraio 2022
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Realismo e astrazione

Torna nel convento di San Matteo un’opera di p. Paolo Manocchio, dono degli eredi Tizzani di Manfredonia. Famiglia di artisti quella di p. Paolo. Il fratello Giovanni (1905-1969) scultore e pittore, affermato artista molisano del Novecento, avvia il giovane Paolo verso la carriera artistica, ma quest’ ultimo inaspettatamente entra in convento, tra i Frati Minori. Al termine degli studi teologici è ordinato sacerdote, inizialmente nelle case di formazione, e una volta che la passione per la pittura riaffiora viene avviato presso lo studio di un affermato pittore francescano, Ortensio Gionfra.

Ortensio Gionfra è un artista che opera nel solco della tradizione che, a partire dal ‘700, ha illustrato il fascino mutevole nell’interpretare la pittura moderna attraverso il quesito: “Che cosa è la realtà? È quella vista, per cui un volto è volto, un fiore è fiore secondo natura li ha fatti?”. Pittore di impeto passionale, Gionfra opera la sua ricerca di stile nell’invenzione astratta della realtà, interviene sulla fantasia, sulle forme – prototipo assoluto è l’opera del Picasso non figurativo che trasferisce sulla tela ossessioni e sublimazioni astratte.

  1. Paolo apprende la tematica conventuale da Gionfra: la realtà dipinta e disegnata si rende in infinite varietà, quasi nidificazione di cose e paesaggi. L’ideologia del figurativo è individuata in Gionfra con fisionomia autonoma. La pittura che dalla bottega di Gionfra p. Manocchio apprende non è accademico-formale, assenza di emozione: il maestro trasfonda nell’allievo l’emozione da emozionare, ben visibile nelle loro opere. Gionfra era capace di alternare la quotidianità della vita in ogni soggetto. P. Paolo, nel lungo periodo di permanenza a Jelsi (Cb), mette a fuoco la fantasia, trascrivere misteri e sogni. Paesaggi, conventi, loggiati, campagna molisana nelle varie stagioni, giochi di bambini, nature morte, è un godimento far pittura. Gli piaceva. Aveva trovato la sua vocazione, tanto cercata. La concreta sacralità nella pittura, come quella del maestro, sta nel diffuso mistero infuso nell’interno dei cicli delle sue opere. Manocchio è un pittore austero, è un artista che sa contagiarci con le sue malinconie e musiche interiori, come nelle nature morte. Il colore è una danza tagliente, sapientemente accostati bruni, bianchi calcina, da rendere la profondità dei sentimenti rigorosamente ideologici: tensione meditava.

Il ciclo di Jelsi comprende La fuga in Egitto, La cena di Emmaus, La Crocifissione raccontati nella verità del racconto: linguaggio comunicativo adeguato alla moderna sensibilità, rigorosa purificazione delle scorie e delle prolissità della tradizione accademica.

Significativo per questo santuario di San Matteo la commissione del Sacro Tavolo del Santo, commissionato dalla fraternità a p. Paolo nel 1975. Lo stile inconfondibile di Manocchio non è una copia dell’originale, ma una interpretazione della statua lignea del XIV secolo in linguaggio cromatico vivo, tagliente, tanto da rendere immediata la partecipazione dei fedeli nel contatto, infondendo nell’opera una serenità sovrumana. La disposizione contemplativa ed esaltativa della poesia del reale Manocchio la compie nella materia facendo lievitare una limpida trasparenza.

Un senso di orgoglio molisano questo recupero della tela “il Pozzale” del chiostro di San Matteo con le linee di fuga prospettiche segnate dalla incisività del colore pastoso, spatolato. Inconfondibile il trattare il colore con il suo umanesimo spirituale e umano, una bellezza che si deve svelare tra la crosta rigida dell’Io, una lezione lungimirante di Giovanni e fra Ortensio, ben riuscita .☺

 

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