Rimettere insieme i cocci
6 Maggio 2022
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Rimettere insieme i cocci

“Non importa/ se il cielo non è stellato/ ho imparato a danzare/ sotto la pioggia (A. Cassano).

Con la fine del mese di marzo lo stato di emergenza in Italia – causa pandemia da covid 19 – ha avuto termine. Sospiro di sollievo: una tragica parentesi si è chiusa, la nostra vita può finalmente riprendere il suo corso … Ma possiamo crederci sul serio? È davvero finito tutto, pandemia, contagi?

E poi ci mancava solo la guerra a toglierci il sonno, a riempire le nostre giornate – e le nostre orecchie – di notizie drammatiche ed impressionanti, e lo dico con pena profonda e rispettosa: dispute pro o contro, chi ha ragione, chi ha torto, insulti e propaganda. Quale stato di emergenza concluso! Siamo ancora al centro dell’uragano, nell’occhio del ciclone.

C’è una cosa che però guerra e pandemia hanno in comune: le conseguenze psicologiche sulle persone coinvolte, e di riflesso per il ‘pubblico’ che vi assiste. Ho sentito di recente richiamare un’espressione, apparentemente suggestiva, sempre di matrice anglofona: compassion fatigue [pronuncia: c’mpascion fatìg], vale a dire la condizione che il personale sanitario (infermieri, medici, psicologi ed operatori in genere) vivono quando sono a contatto con i pazienti – nel caso quelli affetti da coronavirus – e la frustrazione che ne può derivare relativamente alla propria incapacità e/o impossibilità ad alleviarne il dolore.

Il presente oscuro che stiamo vivendo condiziona la nostra psiche al punto che, pur non essendo operatori sanitari e ormai usciti dalla stretta emergenza pandemica, anche noi mostriamo i sintomi della compassion fatigue come faceva rilevare settimane addietro il generale Fabio Mini: “Grazie al consumo di social media e televisioni o di media in generale e al bombardamento continuo, alle maratone di immagini e notizie di disastri, pandemie e guerre, questa sindrome si sta diffondendo a tutta la popolazione che accede a tali mezzi in maniera ossessiva. ‘Come possiamo gestire gli effetti negativi di questi bombardamenti sulla salute mentale?’ si chiede un medico americano. Semplice: mettere giù lo smartphone. Imparare a stabilire i limiti. Non indulgere nell’autocritica”(31 marzo 2022).

L’esperienza di due anni di “con- vivenza” con il coronavirus ci ha certamente segnati, ha messo a dura prova le nostre resistenze fisiche e psicologiche, ha acuito insoddisfazione e malessere: una brutta pagina da voltare. Ma siamo sicuri che possiamo riprendere il discorso con una nuova pagina, tutta da scrivere, senza volgere lo sguardo indietro, senza riflettere sui giorni passati, su quanto abbiamo sperimentato e conosciuto?

Se da un lato il desiderio di liberarci dell’emergenza sanitaria è un’aspirazione legittima, dall’altro possiamo disfarci del tempo trascorso come se non fosse accaduto nulla? La memoria, specie di eventi tragici, non è piacevole da custodire perché ripropone dolore, frustrazione, sconforto, delusione. All’indomani della ‘vittoria (?)’ sul virus siamo tornati quelli di prima oppure questa esperienza ci ha cambiati, in negativo forse, rendendoci magari più attenti e reattivi, risvegliando in noi qualità e atteggiamenti che forse pensavamo di non possedere o che avevamo accantonato intenti a perseguire obiettivi che al confronto appaiono oggi improponibili?

Non c’è fine per la nostra compassion fatigue! La pandemia sembra terminata, ma arriva la guerra: “Quante sono le persone oggi in Italia e nel mondo a rischio di sviluppare questo stress? Probabilmente tante, forse qualche miliardo. Almeno a giudicare dal frequentissimo sintomo, bisbigliato o gridato in tutte le lingue: Non Ne Posso Più”(F. Mini).

Compassion, la cui eti- mologia risale al latino patior [sopportare] preceduto dalla preposizione cum [con], rimanda inevitabilmente ad una relazione, soprattutto emotiva, tra persone, siano esse in condizioni di difficoltà o meno. E fatigue veicola lo sforzo, il lavoro che tale condizione richiede e mette in campo. Questa sindrome, che come ribadito è legata all’assistere e trattare chi soffre per eventi critici o traumatici, richiede da parte di chi opera la necessità di trovare le risorse per aiutare il paziente ma senza che il corpo e la mente di chi interviene ne paghino le conseguenze e il lavoro risulti condizionato: non ne avrebbero pertanto giovamento gli stessi pazienti.

Scrive Chandra Candiani “…sulla terra c’è un gesto magnifico e in via di sparizione: il riparare […] Chi sa rammendare, rattoppare, è addestrato a lottare al buio e al buio inizia a lavorare con i fili, a separare, unire, cucire e disfare. […]Riparare e ripararsi significa staccare il filo che ci lega al danneggiatore, alle conseguenze delle sue azioni, non assomigliargli, non cadere negli stessi sentimenti di distruzione e occuparsi del baratro, il vuoto lasciato dal danno e assaporarne la sconfinatezza, e la libertà di essere diversi”. E Angelo Cassano aggiunge: “La cultura della riparazione è fatta di donne e uomini che hanno il coraggio di rimboccarsi le maniche, provando pazientemente a rimettere insieme i cocci”.☺

 

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