sistemi di potere
1 Ottobre 2011 Share

sistemi di potere

 

Nel descrivere l’Italia di oggi il filosofo Umberto Galimberti così si esprime: “Per essere democratici non basta andare a votare quando ci chiamano alle urne. Le votazioni sono soltanto una modalità tra le molte con cui si elegge chi ci deve governare. La democrazia è ben altro. È il controllo di quanto i governanti fanno dopo che sono stati eletti. E questo controllo da noi è decisamente carente”.

Alla vigilia della consultazione elettorale che avrà luogo in Molise, queste affermazioni mi offrono lo spunto per condividere qualche considerazione sul vocabolo inglese Establishment [pronuncia: istèblisc’ment].

Entrato a far parte delle parole straniere che popolano la nostra lingua fin dagli anni ’60, e in particolar modo quando è scritto con la lettera maiuscola, Establishment è un termine che ha a che fare con il linguaggio della politica: nello specifico esso indica un gruppo di persone che hanno autorità all’interno della società. Per estensione, in italiano, con questa parola si vuole definire la classe dirigente o l’apparato di potere; altri suoi sinonimi sono sistema e istituzione.

La ricchezza lessicale del nostro idioma, sia nel linguaggio quotidiano che in quello strettamente tecnico, viene spesso accantonata e preferiamo ricorrere all’anglo- fono che, però, non sempre “risuona” carico di connotazione positiva alle nostre orecchie.

Pronunciando o ascoltando il vocabolo istituzione la nostra mente corre subito alla legge fondamentale dello Stato, alla Costituzione, cui spesso si fa appello per rivendicare comportamenti democratici e libertari.

Come sottolinea il prof. Carlo Galli a proposito di “istituzioni rappresentative”, è tipico della democrazia moderna che questo elemento di visibilità della politica non cali dall’alto sui cittadini, ma che questi lo costruiscano con libere elezioni e vi si possano rapportare in termini critici e dialettici: che abbiano cioè il diritto di interrogarsi su ciò che è rappresentato, e di interrogare i propri rappresentanti. Che a loro volta devono essere responsabili, cioè devono rispondere alle domande.

La cattiva qualità della politica sembra riecheggiare nel vocabolo Establishment. Il sostantivo inglese deriva dal verbo establish [pronuncia: istèblisc] che annovera tra i suoi significati quello di fondare o insediarsi in maniera permanente, ma anche quello di verificare, mettere alla prova, stabilire. Particolarità semantica non trascurabile di questo verbo è quella che riguarda il riconoscimento ufficiale da parte dello Stato di una confessione religiosa: definire la Chiesa Anglicana Established Church [pronuncia: istèblisc’d cerc], ad esempio, equivale a chiamarla Chiesa di Stato, quale in effetti essa è nel Regno Unito.

Fissità, staticità, immobilismo sono i caratteri che delineano il cosiddetto sistema: nel corso dei secoli, e ancor più al giorno d’oggi, ciò che era stato pensato e impiantato per svolgere al meglio e in maniera concorde servizi destinati alla collettività, per realizzare quella visione della vita associata che si chiama democrazia, si è trasformato in una macchina sempre più sofisticata, un ingranaggio complesso, che solo apparentemente lavora per il bene di tutti, ostinandosi nella conservazione dei privilegi di alcuni. Perché meravigliarsi se oggi sentiamo parlare di casta – ultimo, in ordine di tempo, dei traducenti italiani di Establishment – intorno al quale si scatenano i mezzi di informazione, sostenuti a loro volta dal crescente malumore dell’opinione pubblica?

Quando il sistema smette di identificarsi con quella che è la sua funzione, ma cerca esclusivamente di conservare se stesso e abdica alla sua funzione di illuminare e guidare, incarna la metafora del faro che si erge solitario e distante: come ben ricordava il filosofo Ernst Bloch, “ai piedi del faro non c’è luce”.☺

dario.carlone@tiscali.it

 

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