società solidali
20 Febbraio 2010 Share

società solidali

Molti dicono che alle spalle della crisi politica, economica e finanziaria ci sia soprattutto una crisi culturale. È indubbio che viviamo la sensazione di un «paese spaesato»; serpeggia e si diffonde la tentazione delle «passioni tristi» come diceva Spinosa. Non si tratta della tristezza del pianto o della sofferenza, ma dell’impotenza, della delusione, della frammentazione; un tipo di tristezza che spegne lo slancio vitale di cui sono ancora capaci non pochi soggetti individuali e collettivi. Tristezza che genera malinconia, ovvero, quella condizione prodotta in ognuno dallo scarto tra l’esperienza e l’attesa. Non si può rimanere passivi; come in una diagnosi clinica, occorre entrare nelle viscere del malessere e osare una terapia, la quale, per malattie gravi, non sarà istantanea, ma un percorso lungo che ridisegna la gestione dei bisogni, le abitudini personali e collettive ed impone scelte concrete.

            Se è vero che il mondo moderno (politico, economico e sociale) nasce dallo scrollarsi di dosso i poteri costringenti sia politici che sociali (le monarchie assolute, i latifondisti, i signoraggi e le servitù ecc.) il percorso liberatorio ha avuto come punto focale la dignità di «ogni individuo» umano, senza differenza di razza, di sesso, di religione, di nazionalità, ecc. Differenze non annullate perché identitarie per l’individuo, ma irrilevanti allo scopo di  limitare la dignità dell’individuo che invece si riconosce uguale senza discriminazioni. Certo non significava che ogni individuo potesse da solo bastare a se stesso o che possedesse una autosufficienza o autonomia decisionale senza conseguenze relazionali. Egli era chiamato a vivere insieme con altri – a partire dalla famiglia – nelle comunità, nelle società, nei gruppi in cui la sua vita si articolava. Una vita distinta (distinto diventa aggettivo qualificante la dignità), dentro una visione condivisa (comune) che non annullava le differenze ma le univa in convivialità: un cammino insieme, contando ognuno sul sostegno degli altri, verso un benessere condiviso perciò equo e partecipato: nessuno ne doveva rimanere escluso.

            L’articolazione della società moderna assumeva il volto di una comunità democratica e pluralista, nelle idee, nelle istituzioni, nei percorsi. I beni comuni più che limite rappresentavano quelle realtà  a cui tutti potessero accedere senza che nessuno ne avesse l’esclusivo possesso.

            Un nodo cruciale rappresentò la questione di come collocare  le credenze o fedi in questo contesto pluralista. La secolarizzazione occidentale si è formulata nella convinzione che i sistemi delle credenze (religiose, antropologiche, sociali) fossero da confinare nell’ambito dello «spazio privato», mentre la «sfera pubblica» dovesse essere governata dai soli processi di razionalizzazione ed efficienza. Solo l’Europa, nel mondo intero, ha conosciuto questo modello di  secolarizzazione, a causa del quale gli individui/gruppi identitari sono «forzati» a «privatizzare» i principi ispiratori della propria vita, gli interessi di cui sono portatori. Nulla di simile negli altri continenti e culture; come vera epidemia però l’occidente ha contagiato ogni angolo della terra.

            Ritorniamo un attimo alle due principali fonti politiche, civili e sociali che hanno ispirato l’occidente: la rivoluzione americana (1776) e quella francese (1789). Dalla prima discende il principio della neutralità, che significa imparzialità, dello Stato di fronte alle religioni: non ne preferisce alcuna, tutte sono consentite e favorite nella loro espressività e operatività. Dalla seconda è disceso il principio di separazione che significa indifferenza, tra Stato e credenze: principio che le esclude dalla costruzione dell’etica pubblica.

            Questa laicità occidentale/moderna è al capolinea in concomitanza con la crisi, in occidente, delle credenze. Non si trova definizione del mondo attuale nel “post” che precede “industriale, capitalista, moderno, religioso” ecc. È in crisi perché incapace di dare risposte credibili a domande quali ad es.: rapporto tra ragioni etiche e ragioni economiche; tra valori non negoziabili perché fondativi e diritto codificato; risposte alla novità della multiculturalità, ovvero, di come soggetti portatori di concezioni di vita diverse e distanti tra loro possano vivere in una società politica unitaria; risposte a quali possano essere gli elementi comuni delle diverse concezioni culturali presenti in uno stesso paese che debbano entrare nella cosiddetta “ragione pubblica”, come già avvenne nella formulazione della nostra costituzione, e tante altre ancora che danno senso alla vita e permettono una comune speranza.

Cosa rimane nell’immediato? Il discorso si concentra sui diritti “soggetti- vi” (individuo e gruppi come ad es. le multinazionali o Stati) ed espelle dal dibattito pubblico questioni da sempre ritenute centrali perché “beni comuni”, tanto che siano beni reali (terra, mare, habitat, vita fisica e biologica), quanto spirituali (culture, saperi, tradizioni) e quindi valori, o, infine, obiettivi o prospettive comuni (visioni condivise, politica partecipata, etica e processi correlati) che portino verso beni comuni tutelati, garantiti e resi sempre più accessibili. Appare la sgradita presenza di un soggetto [il leviatano di Hobbes) agente sociale, schiacciato sulla sola dimensione acquisitiva e privatistica, insensibile  e incapace di istanze solidaristiche (i beni comuni).

Una comunità umana composta da soggetti «stranieri morali» che interagiscono solo con le regole degli «interessi soggettivi» (individuo o di gruppi) nell’unico scenario comune e teatro in cui tutto si rappresenta: il mercato. Si opera al mercato, col mercato, secondo il mercato, mentre ci si  illude e puntualmente si promette (come ai G8 o all’attuale conferenza di Copenaghen sul clima) di costruire una «socialità solidale». I governi locali e mondiali dalla «veduta miope» consolidano gli interessi attuali assumendo decisioni irrazionali per i beni comuni ma razionali per gli interessi dominanti che producono conseguenze di lungo periodo, per tutti e per tutta la terra.

Il trionfo della «razionalità strumentale» di individui/gruppi gestori delle «potenzialità tecnologiche», in un contesto in cui sia cancellata la «trascendenza della persona» (oltre se stessi) e delle comunità (oltre l’individuo: i beni comuni), governata da una «politica miope» (l’immediato) annulla la possibilità del discorso dei beni comuni e assicura solo la trascendenza del danno (oltre il presente e per le generazioni future) per decenni e decenni; speriamo che non sia per saecula saeculorum come si intravvede, ad esempio, nelle questioni del nucleare. La questione dei beni comuni  sottende una nuova visione antropologica. ☺

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