Terre meridiane
4 Luglio 2019
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Terre meridiane

In Italia ci sono tanti sud, anche al Nord; e c’è qualche nord anche nel Sud. Il Sud non è una questione geografica, ma una condizione, un sentimento che oscilla tra la solitudine e l’inquietudine. La Maremma e il Molise si somigliano: sono due sud, l’espressione di un modo di essere società e territorio che le fa sembrare al tempo stesso indietro e avanti, terre desolate e vissute, povere e ricche, conservatrici e rivoluzionarie, antiche e moderne, accomunate da percorsi storici non dissimili fin dagli etruschi e dai sanniti.

La prima – la Maremma – è la mia terra, un mezzogiorno di Toscana dove a lungo hanno resistito il latifondo e il paesaggio dei campi a grano e a pascolo, la palude e il bosco, piena di paesi ma vuota di abitanti. Un carattere territoriale ben distante dall’immagine cristallizzata della Toscana classica, una terra senza città.

Il Molise ho imparato ad amarlo lavorandoci da una quindicina d’anni, scoprendolo poco a poco visitando i suoi paesi di pietra, osservandone il paesaggio rugoso e dolce, leggendolo negli occhi dei giovani studenti, nei libri di Galanti, nei romanzi di Jovine o nelle poesie di Eugenio Cirese.

Dove si nasce è per caso, dove si vive è per scelta o per necessità. Si possono amare due o più luoghi contemporaneamente perché il cuore è grande e c’è posto per tutti, anche se il cuore altro non è che la mente. Entrambi, la Maremma e il Molise, nell’ultimo secolo sono stati colpiti dall’ emigrazione, che continua a impoverire le aree interne, anche se in passato sono state spesso zone di immigrazione. Si arrivava dove oggi si parte: erano terre scarsamente abitate, che avevano bisogno di braccia e di bocche. Così, ad esempio, dal ‘400 in avanti si insediarono in Molise albanesi e croati, colmando spazi vuoti, fondando comunità e paesi che ancora ci sono. Anche in Maremma i tentativi di ripopolamento si sono susseguiti dal ‘500 in poi con la fondazione di nuovi villaggi e incentivando la residenza di forestieri provenienti dai monti dell’ Appennino, dalla Corsica, dalla Grecia o dalla Lorena. Migranti che venivano a lavorare, a vivere e sovente a morire lottando con la malaria. Dai monti al mare, Molise e Maremma hanno un gran territorio, più montuoso il primo, con una lunga pianura costiera la seconda, all’incirca la stessa estensione, un capoluogo non grande, qualche polo industriale in crisi, con una bassa densità demografica che in entrambi i territori è circa un quarto della media nazionale.

Oggi la Maremma è un’area più florida che nel passato, rinata grazie all’ agricoltura di qualità e al turismo, e gli arrivi son tornati a prevalere sulle partenze, i borghi riqualificati e i casolari di campagna restaurati e nuovamente abitati. Il Molise no, dal Molise ancora si parte e prevale lo scoramento. I giovani continuano ad andarsene, mentre i paesi attendono sfiduciati le agognate strategie di rinascita, aggrappati alle rocce, ai pochi abitanti rimasti e ai residui servizi da difendere con le unghie e coi denti.

Sono territori da rimettere al centro, da rileggere e rivalutare per quello che hanno, non per quello che gli manca. Finora hanno pesato di più le assenze delle presenze, ma è tempo di invertire la rotta. Il territorio è il prodotto del lungo incontro tra uomo e natura. Questo appare particolarmente vero per regioni come la Maremma e il Molise, terre dell’uomo raro, quindi aperte e accoglienti per necessità che poi lo sono diventate per indole, spinte a ridefinire continuamente nel corso dei secoli la loro immagine e la loro identità sociale, costrette a subire – specialmente nel ‘900 – forme di identità un po’ ideologiche o perfino mitologiche costruite dall’esterno, dai governi o dai grandi proprietari, dagli scienziati o dagli scrittori, finendo spesso per costruire stereotipi a loro volta generatori di una realtà percepita più vera di quella effettiva. Così la Maremma è stata considerata via via una terra lontana e selvaggia, paludosa e malarica, da bonificare e colonizzare, un altrove pericoloso e incerto; poi è arrivata la maremmanità di Fucini, Carducci, Fattori, Puccini, poi la Maremma da redimere del ruralismo fascista, fino a quella “aperta ai venti e ai forestieri” di Cassola e Bianciardi. Anche per il Molise si è cominciato presto ad insistere sull’arretratezza e l’isolamento, fino al “ruralissimo Molise” del periodo fascista, a quello “romantico e stregato”, che a Guido Piovene pareva la Scozia, e al “Molise che non esiste” di oggi, vittima di un modello di sviluppo che ha marginalizzato il territorio e l’agricoltura, privilegiando prima l’industria e poi i servizi, sacrificando la campagna alla città.

Analogie, corrispondenze, differenze che possono infondere coraggio. Qui mancano le città, le grandi città. Maremma e Molise sono regioni di paesi, e da questi occorre partire per ricostruire sul territorio una rete vitale di buon vivere e di opportunità che trattenga le persone, ne attragga di nuove attorno alle risorse naturali, paesaggistiche e culturali di cui sono ricche.

Guardare il Molise da Pietrabbondante o da qualsiasi altro luogo d’altura, perdersi con gli occhi nelle quinte dei monti o, all’imbrunire, tra le luci dei borghi e dei campanili, nelle forme irregolari dei campi e nelle macchie più scure dei boschi, mi riporta alla Maremma e viceversa: se da Volterra o da Suvereto guardo verso sud-ovest al tramonto, vedo un paesaggio di colline e di mare con qualche villaggio e poche case nella campagna coltivata e macchiosa, come essere a Larino o a Guglionesi. Penso allora a un’Italia che mescola analogie e differenze, natura, lavoro umano e bellezza. Questa, non altro, dovrebbe essere la sua più profonda e duratura ricchezza, affondante radici in queste terre meridiane che furono culla di civiltà antiche, i cui germi, forse, non sono ancora spenti del tutto.☺

 

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