Trump l’incendiario
17 Gennaio 2018
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Trump l’incendiario

Sarà la diplomazia a salvare il mondo. Perché è la diplomazia che lo governa e lo ha sempre condotto saggiamente nei secoli passati, presenti ed auspicabilmente futuri. Perché è di rapporti diplomatici che si nutre ogni democrazia e sono questi stessi rapporti che sottendono relazioni centenarie tra popoli e stati, anche con tradizioni, culture e razze diverse.

La diplomazia è questo, ma è soprattutto molto altro. È primariamente un insieme di regole non scritte, un’insieme di consuetudini che si sostanziano in un’illimitata carta costituzionale ‘rigida’ ed astratta, ma da cui non si può prescindere e che tutti i capi di stato e di governo dotati di buonsenso, come dovrebbe necessariamente essere per chi siede ai vertici della piramide sociale, hanno per grandi linee rispettato nel corso della storia fino ad oggi. Il riferimento è ovviamente a quegli stati che hanno un corpo elettorale che sceglie liberamente i propri governanti.

Rompere gli equilibri diplomatici, andare contro quelle regole su cui sono basati i rapporti di buon vicinato è idea folle, azzardata, suicida; ed è figlia spesso della mancanza di statura politica, oppure di scarsa conoscenza degli avvenimenti storici. In ultima analisi, può essere il risultato di entrambe le cose, poiché anche il più navigato homo politicus che agisce come preciso calcolatore, non avrebbe l’ardire di violare ciò che pur non essendo scritto rappresenta una regola aurea globale.

Eppure questa funesta ipotesi si è verificata. In un’epoca post-moderna ritenuta esempio di civiltà estremamente conflittuale, dove l’esplodere di crisi è appena dietro l’angolo, il personaggio politico più potente del mondo, il primus inter pares, che si presuppone esportatore di democrazia nonché garante della pace nel mondo, appena qualche settimana fa, con una mossa inaspettata e del tutto imprevista, ha deciso di gettare benzina nel focolaio Mediorientale, zona crogiuolo di razze e religioni in conflitto dalla notte dei tempi.

Il 6 dicembre 2017 infatti, il presidente statunitense, Donald Trump, con un atto unilaterale ha deciso di dichiarare ufficialmente Gerusalemme capitale d’Israele e contestualmente di trasferire l’ambasciata americana da Tel-Aviv alla città della Spianata delle moschee, rompendo così una tradizione, una consuetudine appunto, che faceva della capitale economica israeliana il centro di potere della delegazione a stelle e strisce, essendo la capitale politica invece, una metropoli divisa, perennemente contesa e focolaio di possibili crisi.

Un decentramento quindi da sempre resosi necessario, che grazie alla moderazione dei capi di stato americani ha tenuto in equilibro una città ed uno stato dove convivono sia le tradizioni ebraiche, fondamentaliste e non, che i palestinesi residenti. Per rendere innocuo questo perenne conflitto tra denominazioni cristiane, le chiavi della Chiesa del Santo Sepolcro, luogo in cui ebbe sepoltura Gesù, sono riposte nelle mani di una famiglia musulmana.

Un terreno, da questa breve ricostruzione, che si comprende accidentato, minato, e sul quale tuttavia settant’anni fa l’allora presidente Harry Truman, pur riconoscendo lo stato d’Israele, non sbarrò la porta del dialogo ai vicini palestinesi, come in ogni sincera relazione diplomatica, pur essendo quest’ultimo un vocabolo improprio a quei livelli. Lo stesso atteggiamento di appeasement che ebbe Dwight Eisenhower, colui che meglio di altri cercò di comprendere a fondo le ragioni dei palestinesi. Solo con l’avvicendarsi alla Casa Bianca della famiglia Bush, senior prima e junior poi, l’asse diplomatico si spostò nuovamente verso lo stato della stella di Davide, ma ogni decisione sulla ratifica del trasferimento dell’ambasciata americana non venne mai presa definitivamente, a ragione, neppure durante quei mandati.

Questo perché, come scrive Wlodek Goldkorn, profondo conoscitore dell’ebraismo, “Gerusalemme è una città mondo, impossibile da unire o dividere, costituita da un insieme di enclave, spesso fazzoletti di terra in perenne conflitto tra loro”. Ecco perché tra la parte Est di Gerusalemme a maggioranza palestinese e la parte Ovest a maggioranza israeliana vi sarà sempre un limes che nessuna decisione politica unilaterale sarà capace di abbattere.

Non ci sono riusciti, in tanti anni, governi con a capo ‘colombe’ come Yitzhak Rabin, il quale pur di comprendere le ragioni dell’altro ha pagato con la propria vita, e non ci sono riusciti insigni statisti venuti da oltreoceano come l’ultimo Barak Obama, capace di creare le condizioni per il disgelo tra le parti facendo tornare d’attualità l’idea dei “due Stati e due popoli”.

Tutto questo fino al 6 dicembre scorso quando, improvvisamente, senza tener nella benché minima considerazione quanto costruito faticosamente nel corso degli anni, il tycoon-magnate-presidente americano Trump ha deciso di fare un salto all’indietro, quasi anti-storico, stabilendo da Washington cosa fosse più giusto per una terra lontana migliaia di chilometri e gettando un manto oscuro sugli scenari futuri di popolazioni ormai dilaniate da anni di conflitto.

Questo ha scatenato, fin dalle ore successive alla decisione, l’inizio di una nuova Intifada, in cui a pagare, purtroppo, sarà ancora la gente comune che in quei posti vive e che subisce le decisioni di chi ha relegato la parola diplomazia nell’angolo più recondito della propria agenda politica.

A quali conseguenze la scelta di Washington porterà, non è lecito conoscerlo nel breve periodo. Tuttavia è sotto gli occhi di tutti l’evidenza che a spostare gli equilibri con provvedimenti finalizzati alla destabilizzazione piuttosto che al contrario siano proprio quegli stati che si ergono a modelli democratici da imitare. Se poi aggiungiamo, alla vicenda israeliana, la sequela di provvedimenti attuati finora dall’amministrazione repubblicana della Casa Bianca, senza entrare nel merito delle vicende interne ma limitandoci ad osservare le nuove tensioni degli Stati Uniti con Cuba, Iran e Corea del Nord, nonchè la freddezza dei rapporti con la Russia, l’auspicio che la mediazione dell’Onu possa entrare in campo nel più breve tempo possibile è quanto mai necessario.

Al contrario, non resta che aspettarsi un nuovo scontro di civiltà che partendo dalla Città Santa investirebbe rapidamente tutto l’Occidente, senza alcun risultato finale, se non quello di aver dato vita ad un perenne senso di paura ed una condanna preventiva per le generazioni a venire. ☺

 

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