Un federalismo sui generis
14 Dicembre 2017
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Un federalismo sui generis

Garrisce al vento la bandiera verde con la rosa dei camuni stilizzata accanto a quella porpora del Leone di San Marco. Sventolano fianco a fianco, quasi a voler rinverdire i fasti del Regno Lombardo-Veneto di prussiana memoria. Sospinte da un impulso nuovo dopo il positivo referendum dello scorso ottobre, Lombardia e Veneto cercano quell’autonomia rafforzata che sta diventando il leit-motiv di questo autunno caldissimo un po’ in tutta Europa, dalla Catalogna alla Scozia, passando per la Slesia e le Fiandre.

Quella che si è svolta nel nostro paese è stata però una consultazione nel pieno rispetto della Costituzione italiana, a differenza di ciò che si è visto altrove. I veneti, con questo scrutinio, chiedevano un’autonomia differenziata, ovvero più ampia rispetto alle prerogative delle regioni a statuto ordinario. Una maggiore libertà da concretizzarsi nell’ambito dell’organizzazione della giustizia, dei princìpi generali dell’istruzione e della tutela dell’ambiente e dei beni culturali. Non ultima, la tematica spinosa delle materie attinenti le competenze concorrenti, tra cui l’annoso problema delle tasse, che da decenni ormai, veneti in testa e lombardi a seguire, auspicherebbero non più versare nelle casse di “Roma ladrona”, neologismo onnipresente nel vocabolario leghista. Le imposte oggetto della discordia i promotori della consultazione hanno ribadito una volta di volerle riscuotere direttamente sul territorio e non farle più uscire dai propri confini, al fine di poterle reinvestire direttamente in loco e non essere sperperate (a loro dire) quale partita di giro verso le casse dell’Erario. Dove andrebbero a finire i loro soldi? A compensare sia il mancato gettito generato dall’evasione fiscale del meridione, ma anche i debiti delle regioni a sud della capitale, soprattutto per quanto concerne il settore sanitario.

Sarà poi vero che i soldi dei contribuenti veneti, vessati dalle tasse, vengano utilizzati per riequilibrare gli scompensi fiscali dei cugini meridionali?

Ad un’attenta lettura dei dati pubblicati di recente dalla C.G.I.A. di Mestre, che ha messo a confronto il gettito di imposte, tasse e tributi versati all’Erario, se è pur vero che la Lombardia figura al primo posto, seguita da Trentino ed Emilia Romagna, immediatamente giù dal podio c’è proprio il Lazio, il cui cittadino mediamente versa alle casse erariali la cifra di 10.452 euro di imposte annue pro-capite, a fronte di un massimo di 11.898 euro di un cittadino lombardo. Ed il virtuoso Veneto? Lo troviamo solo al settimo posto di questa analitica graduatoria, con un versamento annuo pro capite di circa 9.400 euro. Questo sfata non solo un tabù, perché dimostra che un cittadino di ‘Roma ladrona’, sempre per utilizzare termini cari al partito salviniano, paga mediamente più tasse di un abitante della regione della Serenissima, ma mette anche in guardia sull’opportunità’ di non urlare troppo ad alta voce slogan che potrebbero rivelarsi un vero boomerang.

Questa verità, rivelata dai dati effettivi a disposizione di ogni cittadino, potrebbe forse far addivenire a più miti consigli anche la pletora di celebri imprenditori del calibro di Zonin, Ferretto, Zoppas, Benetton, e tanti altri, veneti fino al midollo, che in parti maggiori o minori erano tutti azionisti di quegli istituti, CariFerrara in testa, Veneto Banca a seguire, e Popolare di Vicenza per chiudere, salvate dal decreto salva-banche, emanato proprio dai tecnocrati seduti a Roma.

Artatamente e con abile strategia politica consumata, ad esempio per quanto riguarda il decreto salva banche, (di cui è bene ricordare che i beneficiari maggiori sono stati appunto i correntisti veneti) il fronte del Nord ha sempre spostato l’attenzione sulla connivenza tra Esecutivo renziano e vertici di Banca Etruria, con la famiglia Boschi oggetto di continui attacchi, seppur con fondate ragioni; ma questo non deve far dimenticare i 17 miliardi di euro complessivi di risorse mobilitate dal Consiglio dei Ministri per salvaguardare correntisti ed interessi del Nord secessionista.

Il dubbio a questo punto è lecito. Siamo poi così sicuri che questa richiesta di maggiore autonomia, laddove già esistente per dettame costituzionale, vedasi regioni a Statuto Speciale, nasconda le sue beghe esclusivamente nella vituperata Sicilia?

Ebbene, anche in questo caso va a cadere un falso mito. All’estremo nord dell’Italia, scopriamo l’esistenza di una Regione-Stato, vera e propria fortezza inespugnabile di interessi e clientele da decenni. Chiusa tra pascoli verdi e splendide vallate che fanno da cornice ai rilievi alpini sovrastanti, la Valle D’Aosta si rivela un centro di potere per eccellenza a tutti gli effetti. La Valle resta saldamente al primo posto nella poco invidiabile classifica per numero di dipendenti della P.A., vantando il record ben 14.101 statali, uno ogni nove valdostani, in una regione di appena 128mila anime. Numeri al top anche per quanto riguarda il numero di consiglieri regionali: in una regione normale come la Lombardia, il rapporto è di un seggio ogni 125 mila abitanti. Seguendo lo stesso criterio, il consiglio della Valle D’Aosta dovrebbe averne uno solo, invece ne ha ben 35, un seggio ogni 3.600 residenti, poltrone dietro le quali c’è l’ombra del voto di scambio, poiché gli apparati di potere sono stati cristallizzati per anni sotto la guida del padre padrone Augusto Rollandin, che ha egemonizzato la regione per circa vent’anni, seppur in periodi differenti.

Ecco: questi sono alcuni brevi spunti, ma di per sé sufficienti per mostrare come si possa rivelare poco credibile nelle sue stesse fondamenta un progetto federalista ‘all’italiana’, che attraverso i temi fiscali, economici e locali – per seguire il canovaccio del racconto – mette in evidenza tutta la sua fragilità prima ancora che si realizzi.

Pertanto, oltre alla necessaria cautela che determinati personaggi politici spesso dimenticano di adottare quando trattano l’accidentato percorso della devolution, viene da chiedersi se i numerosi stop imposti dal popolo italiano al progetto, sia attraverso l’istituto referendario, anni addietro, sia attraverso l’insufficiente consenso elettorale verso tali partiti, non siano stati il vero vantaggio dei secessionisti, mai messi di fronte alla vera prova del governare, senza perciò avere cognizione alcuna dell’impatto reale della loro stessa propaganda. ☺

 

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