un futuro negoziabile     di Silvio Malic
30 Dicembre 2011 Share

un futuro negoziabile di Silvio Malic

 

“Nessuno è condannato alla propria debolezza, né alcuno è premiato dall’astuzia della sua prevaricazione come accade tra gli uomini”

(C. M. Martini, Il giudizio, in Sto alla porta p.109)

             Il costituirsi del sistema democratico occidentale non fu una marcia trionfale senza asperità e conflitti, anche sanguinosi. A volte fu il diritto a sancire e aprire la strada a nuovi sviluppi e pacificazioni, a volte fu il conflitto a promuovere un nuovo diritto capace di accogliere istanze  reali, inerenti alla dignità delle persone o di gruppi sociali, o, infine, a sostenere un riequilibrio di diritti rispetto a ingiustizie patite.

Per arrivare ai nostri giorni si può dire, in modo sintetico, che Stato (con le sue istituzioni democratiche), Nazione (comunità plurime di cittadini non sempre di unica etnia o lingua) e popolo o cittadini variamente rappresentati in gruppi di interesse specifici (quali ad es. partiti, religioni, imprese, operatori di mercato, finanza, organizzazioni sociali, ecc…) erano “allineati” in un reciproco riconoscimento della specifica funzione, o, causa i cambiamenti storici, continuamente ri-allineati, da un processo di negoziazione sociale che potesse onorare le parti e contribuire al reciproco sviluppo.

Nelle democrazie occidentali degli ultimi trent’anni si ha la percezione che, al di là dei singoli problemi, si sia insinuato volutamente un disallineamento tra i fattori e gli attori di esse con l’amaro risultato che non riescono più a cooperare e neppure ad ascoltarsi. Le loro logiche, dopo essersi incontrate in una certa fase della politica occidentale (nei primi tre decenni del secondo dopoguerra), ora divergono verso destini contrapposti. Le contraddizioni della democrazia più che comporsi esplodono in conflitti non negoziabili di posizioni, sorrette dal potere delle maggioranze o dai poteri forti, i quali mirano ad essere autosufficienti senza prevedere neppure possibile la collaborazione critica e il controllo di minoranze o delle parti coinvolte.

Il pensiero unico dell’ultimo liberalismo selvaggio, unito al primato assoluto del mercato, ha tracciato la traiettoria di senso della rivoluzione liberista degli anni ’80, divenendo il solo orizzonte cognitivo del mondo occidentale e la deregulation lo strumento operativo per assicurare  una larga e rapida diffusione al nuovo paradigma economico e sociale, trasformatosi, in ultimo, in paradigma culturale della vita e della società. La celebre affermazione di Margaret Thatcher secondo cui “non esiste una cosa chiamata società” evidenziava l’illegittimità di ogni principio o progetto che osasse contrastare – anche solo in termini di regolamentazione o di controllo democratico – la libertà d’impresa, intesa in senso lato, depotenziando così ogni strategia di governo comune, praticata in nome dell’interesse generale, del  bene comune e dell’interesse degli attori coinvolti.

Le maggiori preoccupazioni si appuntano, oggi, sugli scompensi determinati dai prezzi energetici (petrolio e gas per società sempre più energivore, incapaci di ridurre la domanda) ma si estendono ormai anche ai bisogni primari come il lavoro e quelli alimentari. La sindrome da impoverimento si acuisce con l’aggiunta che non eravamo più abituati ad affrontarla. Per la prima volta i figli si sentono più poveri dei padri, nonostante abbiano acquisito alti livelli culturali e competenze ben superiori ad essi. Ma la questione tocca, ora, non solo i temi dell’economia bensì anche le modalità nuove dello stare insieme nel mondo di oggi senza più confini e periferie.

La logica sottesa dal mercato unico impone se stessa senza mediazione di sorta e manifesta la nascosta violenza e l’incapacità di dare spazio alle presenze di altri interessi legittimi, di altre intenzionalità positive, di altri fattori, di altri attori del vivere contemporaneo. Si rivela, tale logica, inefficace e incapace di disciplinare ordinatamente i flussi globali e scongiurare crisi di tipo planetario; incapace di proteggere le aree territoriali e settoriali che via via entrano in crisi (tanto che si tratti di paesi africani più poveri che di europei); totalmente inefficiente a garantire la protezione di bisogni sociali diffusi e drammaticamente tralasciati; assolutamente inadeguata a dare senso ai comportamenti collettivi. Anche la chiesa, spesso ferma alla proclamazione di principi non negoziabili, non riesce a dare senso (educare a prassi testimoniali creative e innovative) ai suoi stessi membri, travolti dalla cultura dominante circa la vita, la morte, la ricchezza, la giustizia e l’equità, il rapporto intergenerazionale, il rapporto con l’ambiente, la terra e gli ecosistemi. Inchiodata nella dottrina non appare capace di dar vita e nutrire, come madre provvida e paziente, in un processo che assuma il vivente prima di assumerne o discuterne le idee, pur continuando a proclamare a se stessa il primato di Dio e il primato della persona umana, soprattutto se più debole.

La negoziazione (incontro di persone, confronto e composizione finale positiva su un possibile umano e degno per ognuno) è amaramente assente in tutti i luoghi delle decisioni moderne: i vari G8/20, FMI, BM, WTO, sono tutti luoghi senza colloquio, senza democrazia. L’Europa stessa invece di spingersi verso l’Unione ritorna indietro verso la associazione economica di mercato tra stati autonomi, dove i più forti prevalgono. I luoghi della negoziazione, decisione e controllo democratico (parlamento e commissione) sono accantonati e travalicati dai summit a due a tre o a piccoli gruppi: non esiste più un progetto comunitario; non esiste una cosa chiamata società ripeterebbe, oggi, la Thatcher! Il progetto era proprio un’unica Comunità europea e non solo un mercato unico. Replicanti del pensiero unico, gli odierni statisti appaiono nani senza spirito e progetto; affannati a tutelare, inefficacemente, un presente dannato e iniquo, mentre è loro richiesto di provvedere ad un futuro possibile, giusto e condiviso: negoziato alla pari. ☺

 

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