Un incontro…d’altri tempi
4 Aprile 2019
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Un incontro…d’altri tempi

Una mattina di primavera 2018, salgo sul monte Morrone. Dopo gli incendi nefasti dell’estate 2017, intendo rendermi conto, de visu, dello stato dei luoghi e dei danni subiti dall’ambiente naturale. Nel mentre scruto i pendii, incontro un pastore di nome Giosuè. Iniziamo a conversare.

Il pastore Giosuè, con indosso un giaccone consunto da cacciatore, prima d’incrociarmi era intento ad ascoltare il gracidio delle rane immerse in un fossatello adiacente il sentiero che stavo percorrendo. Gli chiedo: “Chi sei? Che cosa ci fai da queste parti?”. Ed ecco quanto Giosuè mi viene ad esporre: “Dopo aver vissuto, nel XIII secolo, un’altra vita, l’Onnipotente m’ha reincarnato, di recente, nel corpo d’un pastore di greggi – così come mi vedi ora – facendomi tornare sul massiccio montuoso della Majella, ossia nei medesimi luoghi e pascoli ove già, nella precedente esistenza, avevo vissuto diversi secoli fa. Dopo lungo vagabondaggio attraverso i pascoli del Cielo, son finito qui, dove ti sto ora parlando. Se vorrai ascoltare, ti renderò edotto delle vicende di cui, a suo tempo, fui protagonista”.

Seduto al mio fianco su uno spuntone di roccia, Giosuè racconta: “Nella vita precedente, fui monaco in Abruzzo, in queste stesse località montane ove il destino, o Volontà Superiori, m’hanno ricondotto a distanza di secoli. Mi chiamavo, all’epoca, fra’ Pietro Angelerio, nativo del vicino Molise. Me ne stavo tranquillo nel romitorio da me stesso edificato su questo monte, su cui nell’anno 1239 avevo scelto di fermarmi a vivere, da monaco benedettino, in preghiera e povertà. Lo stile di vita da me adottato, fatto di silenzio, preghiera e lavoro – stile di vita che invitava alla conversione ed al recupero dei valori di cristianesimo puro, compromesso dalla corruzione dilagante – venne apprezzato da molti, soprattutto laici, fin dentro le corti dei regnanti d’Europa. Morto papa Niccolò IV nel 1292 ed esitando i cardinali a designarne il successore, sentii cosa giusta intervenire presso i vertici della Chiesa Cattolica giungendo a predire “gravi castighi” alla Chiesa se non avesse provveduto a scegliere subito il nuovo pontefice. Forse per la vita ascetica che avevo scelto di condurre, fatta di povertà, misticismo e costante ricerca della presenza di Dio, tutti parlavano di me con gran rispetto. Cosicché, dopo lunghe sedute, il Conclave scelse me, pur immeritevole, come nuovo Papa. Benché riluttante ad accettare un incarico tanto oneroso, alla fine, sollecitato da più parti, dissi di sì. Posso oggi asserire a ragion veduta che i cardinali erano pervenuti a questa soluzione pensando di poter gestire, ciascuno a modo suo, la totale inesperienza d’un vecchio monaco qual ero (del tutto estraneo a giochi di potere curiali) più per loro vantaggi personali, che per reggere la Chiesa in quei momenti difficili.

Sicché, in sella ad un asino tenuto per le briglie dal re di Napoli Carlo II d’Angiò, di parte guelfa, che aveva insistentemente caldeggiato la mia nomina, il 28 agosto 1294 entrai a L’Aquila dove, nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio da me stesso fondata qualche anno prima (nel 1288), fui incoronato papa con il nome di Celestino V. Prima di diventare papa, non essendo prelato di corte vivevo, povero, fra la gente comune. E quando fui eletto papa, volli che fossero anzitutto i poveri a partecipare alla mia festa e che si sentissero accolti e amati da Dio.

Giacché, mentre chi era ricco e potente aveva l’opportunità di fare elemosine, pellegrinaggi, penitenze scontate grazie ad elargizioni al clero, la gran massa poteva condividere soltanto fame e disgrazie. Così, lanciai un proclama geniale – fui il primo a farlo, fui dunque io l’ideatore della prima forma di “Giubileo”, rinnovato poi, di anno in anno, a l’Aquila con il nome di “Perdonanza”: chiunque entra il 28 e 29 agosto nella basilica aquilana di Collemaggio, assetato di Dio e con volontà di riconciliazione, ne esce rinnovato e risollevato poiché l’Onnipotente ama tutti e a tutti dona speranza: si annullavano in tal modo le differenze tra ricchi e poveri, nobili e plebei. Era una risposta eccellente alle istanze del tempo, da parte di una Chiesa che troppo spesso non aveva – non sempre ha avuto né ha – il Vangelo come punto di riferimento.

Non ci misi molto a comprendere in quale ginepraio d’intrighi politico-amministrativi fossi finito, al punto da decidere, dopo pochi mesi, di rinunciare all’incarico. Perciò, a dicembre dello stesso anno 1294 annunciai le dimissioni dal papato. Mi successe così, sul soglio pontificio, il cardinal Benedetto Caetani, con il nome di papa Bonifacio VIII.

Tornato ad essere ciò che ero, cioè fra’ Pietro da Morrone l’asceta, cercai presto, in tutti i modi, di rientrare nei luoghi a me cari ed alla vita semplice di prima. Tuttavia, ciò mi venne impedito dal nuovo papa, probabilmente per timore che riferissi oscuri segreti e trame di potere di cui ero venuto a conoscenza. Tentai la fuga, inutilmente. Raggiunto dagli armigeri pontifici, venni rinchiuso nella rocca di Fumone, in Ciociaria, castello nei territori dei Caetani e diretta proprietà di Bonifacio VIII. Qui spirai nel mese di maggio 1296, fortemente debilitato dalla deportazione e dalla prigionia. Secondo la versione ufficiale, sarei morto dopo aver celebrato, stanchissimo, l’ultima messa. No. Semplicemente, morii consumato dagli stenti e dall’età”.

Il racconto di Giosuè prosegue: “Dante Alighieri era a me contemporaneo in quanto nato nel 1265: all’epoca della mia morte aveva 31 anni di età; la narrazione del viaggio ultraterreno da lui descritto nella Divina Commedia parte 4 anni dopo la mia morte, cioè nella primavera del 1300. Dunque, da persona attenta qual egli era, conosceva bene la mia vicenda umana. Tuttavia, usò parole assai dure nei miei confronti, in quanto papa Celestino V, squalificandomi agli occhi del mondo. Mi descrisse, infatti, come colui che “fece per viltade il gran rifiuto” (Inferno, Canto III)”.

Il pastore Giosuè commenta quelle vicende con occhi umidi e voce vibrante: “Ma quale viltade! Che cosa poteva saperne Dante di quante vessazioni l’umile frate avesse dovuto subire? Orbene, come avrebbe potuto, quel miserello, sopportare il peso ingente della carica papale? Era un povero monaco, incolto, perfino ingenuo: come avrebbe potuto, da solo con le sue fragili forze, reggere la Chiesa, istituzione tanto complessa e tanto contraddittoria, attraversata e condizionata – non meno di oggi – da poteri ed interessi umani indicibilmente feroci e violenti, lontani anni-luce dalle Verità del pensiero divino?”.

Tutto questo, il pastore Giosuè ha inteso riferire: “Il mio spirito ha poi errato, per secoli, nei pascoli del Cielo. Soltanto di recente mi è stato concesso di tornare a visitare i luoghi di quell’antica esistenza. Ecco perché m’hai incontrato qui, sulle pendici del monte Morrone ove già avevo vissuto”.

Alquanto commosso, saluto Giosuè, proseguendo il mio andare.☺

 

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