una mimosa da sfogliare
26 Febbraio 2010 Share

una mimosa da sfogliare

 

Non amo l’8 marzo. La rimpatriata che talvolta – col pretesto della mimosa – faccio con alcune amiche che vedo poco, mi aiuta a digerirlo meglio, con un sorriso ironico. Ma resto sempre convinta che la famigerata “festa della donna” dovrebbe essere abolita, almeno fintantoché restano sparse per il pianeta troppe donne che hanno troppo poco da festeggiare, sia in quel giorno che durante gli altri 364, nell’assordante silenzio familiare, sociale, mediatico.

Un regalo intelligente, però, quest’anno lo farò a qualche donna speciale che conosco. Un libro. Già, in barba a quei dati sconfortanti che ci affliggono sulla debole preferenza che gli italiani accordano alla lettura. “Donne della Bibbia”, di Elena Bosetti, vale ben più di una mimosa. È un’iniezione di fiducia, di dignità, di coraggio, di autostima fatta nelle vene delle donne e della donna, concepita e descritta come creatura fragile e tenace, forte della sua debolezza, capace di scelte ardite, di sfidare a testa alta il maschio prevaricatore, la sorte avversa, capace di sbaragliare i piani e l’arroganza dei superbi con la sola forza della speranza, della fede in un Dio che non delude.

Ogni capitolo, un ritratto di straordinaria intensità: dal Primo al Nuovo Testamento, con un linguaggio appassionato e preciso, sempre in equilibrio perfetto tra l’esegesi più raffinata e la poesia, l’autrice ritaglia dalle pagine della Scrittura figure di donne che hanno segnato la storia d’Israele e la vicenda umana di Cristo con il loro coraggio, i loro errori, la loro bellezza, la loro audacia, la loro capacità di fidarsi di Dio incondizionatamente, contro ogni ragionevole speranza. Ecco allora Sara ed Elisabetta, la moglie di Abramo e quella di Zaccaria, che accolgono nel loro corpo quel figlio che mai avrebbero pensato di poter più generare alla loro età, si trovano a vivere sulla propria pelle l’avventura, il rischio e la fatica di credere, ed esplodono in un canto di ringraziamento e di lode a Dio al quale “nulla è impossibile”: la prima gridando “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio” e chiamando il bambino Isacco, che significa proprio “riso di gioia”. La seconda, nascondendosi per cinque mesi dalla gente, una volta incinta, per contemplare con più gusto e raccoglimento (attraente interpretazione della Bosetti) la meraviglia operata dal Signore in lei, fino ad esprimere quel liberatorio “Benedetta tu fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno” davanti a Maria che va a trovarla, facendole sussultare Giovanni nel grembo.

Ecco l’innamorata del Cantico, intraprendente, ardita, passionale, che sfida le piste infuocate del deserto e i pericoli della notte per raggiungere l’amato.

Ecco Sifra e Pua, le due levatrici ebree, simbolo di tutte le donne che lottano per difendere la vita, due volti femminili dell’obiezione di coscienza di tutti i tempi, che non esitano a rischiare la pelle per opporsi agli ordini del faraone in nome dell’obbedienza a Dio: in Egitto, la crescita demografica del “popolo altro” e sottomesso spinge il re a eliminare i nati maschi, poiché sarebbero una potenziale minaccia per gli Egiziani, mentre le donne – controllabili, vulnerabili, sfruttabili in mille modi – …che vivano pure! E invece sono proprio due donne, Sifra e Pua, che vincono con l’astuzia femminile contro la violenza cinica e la brutalità del faraone. Contravvengono all’ordine di farli morire, adducendo come giustificazione che le donne ebree sono forti e vigorose, ben più delle egiziane, per cui hanno partorito da sole, prima dell’arrivo delle levatrici, che non hanno potuto compromettere in nessun modo la sopravvivenza dei neonati nella delicata fase del parto. E il faraone tace, si arrende. Intuisce l’inganno, ma ne resta spiazzato.

C’è poi la solenne e determinata Debora, la profetessa e giudice, senza la quale il generale Barak non si sente pronto ad affrontare l’esercito del nemico Sisara. Debora che, sola, incoraggia gli Israeliti e li porta alla vittoria con l’audacia e l’energìa del suo canto.

Una commovente storia di amicizia è poi quella di Rut e Noemi, nuora e suocera, legate – in barba ad ogni stereotipo sociologico – da un’inscindibile vincolo di lealtà e di solidarietà: la nuora, vedova, non lascia da sola la suocera, rimasta vedova anch’essa, e per lei abbandona la sua famiglia d’origine.

Giuditta poi (che, mea culpa, identifico più con un’eroina del Caravaggio che con uno dei personaggi femminili più affascinanti del Primo Testamento). Uccide il nemico Oloferne, davanti al quale sta con la sua bellezza prorompente, e mi ricorda in modo inquietante Neda, uccisa il 23 giugno 2009 a Teheran, mentre non si arrende alla violenza del regime di Ahmadinejad e, colpita da un proiettile in pieno petto, muore, muore davanti al mondo con gli occhi aperti, il velo scivolato via, i jeans e le scarpe da ginnastica. Giuditta uccide, Neda viene uccisa. Ma vive. Diventa simbolo della vita che vince la morte della coscienza, della bellezza che si oppone all’inferno – come Roberto Saviano ha scelto di leggere questa tragedia nel suo omonimo saggio -, che vince l’empietà.

Donne coraggiose, quella della Bibbia, anticonvenzionali, fuori dagli schemi, come la più grande, Maria, giovanissima e fragile quando accetta senza battere ciglio una maternità che le costerà, forse, il promesso sposo, la reputazione, un progetto di vita che aveva immaginato diverso.

Donne con gli attributi, quelle della Bibbia, che non possono cambiare l’ora della Croce ma, quando giunge, non scappano come gli uomini, restano lì, e sono le prime alle quali il Risorto appare.

Donne con i loro nodi irrisolti, i loro traumi, le loro ferite, ma sempre aperte a rimettersi in discussione, a ricominciare, come la Samaritana al pozzo.

Donne in cammino. Come noi.

Buon 8 marzo. Con un po’ di pazienza e qualche sana lettura, passerà anche quest’anno.☺

gadelis@libero.it

 

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