Urbanistica contrattata?
19 Febbraio 2018
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Urbanistica contrattata?

Ma quando è successo che abbiamo dimenticato quel senso di appartenenza ad una comunità che il volto della città che abitiamo incarna plasticamente? Come abbiamo potuto lasciare che la ragioneria contabilistica delle amministrazioni giustificasse la vendita di ogni bene comune, in primis quel territorio modellato dai secoli nel quale si rispecchia il volto del nostro essere cittadini?

Come scrivono autorevoli esperti, all’urbanistica, che era costruzione collettiva per eccellenza e serviva appunto a costruire comunità, è stata imposta oggi (a volte con la sua stessa complicità) una maschera grottesca, appoggiata ad una qualifica, “contrat- tata”, che suona oltraggiosa da subito.

Di chi è la città? Come diceva Lefevre, esiste un “diritto alla città”? E chi contratta l’urbanistica, con che autorità e con chi? Non certo con gli abitanti della città, né col popolo delle periferie, né con le associazioni che quotidianamente si battono per avere una città semplicemente più decente.

Certo invece con i soliti noti, quei poteri dai contorni indistinti che a Roma chiamano con termine efficace “palazzinari”. Quelli che hanno sfregiato l’Italia in anni nei quali il concetto di ambiente come bene collettivo da difendere non era ancora emerso, quelli che ora avremmo la sensibilità e la consapevolezza per fermare e che invece dilagano sul territorio con la complicità colpevole di amministratori incoscienti o conniventi.

L’esproprio della democrazia costituito dalla possibilità di scavalcare i Piani Regolatori e decidere lo sviluppo urbano in solitudine ci viene venduto come innovazione, riqualificazione, ingresso della città nel terzo millennio: il tempo di un liberismo selvaggio che considera storia e identità come inutili fardelli da azzerare.

Né il pur pesantissimo taglio del bilancio dei Comuni negli ultimi anni basta a giustificare il selvaggio ricorso alla finanza di progetto cui assistiamo per esempio a Termoli (persino il cimitero! capolavoro di cinismo), la corsa a privatizzare e a svendere i propri servizi pubblici a vantaggio degli investitori privati. Senza capire, perché manca qualsiasi coscienza del proprio essere servitori del bene pubblico, che ciò comporta l’automatica trasformazione dell’ente locale in ente inutile, come scrive acutamente Guido Viale, in quanto una democrazia priva di autonomia locale non è più tale.

La sciagurata vicenda, ancora non conclusa, del tunnel e della distruzione del colle di Sant’Antonio diventa allora solo un tassello di una complessa strategia che vuole appunto contrattare la città con i privati: della città si vuol fare un semplice oggetto di speculazione, togliendo di mezzo gli ostacoli obsoleti della discussione in Consiglio comunale del Piano Regolatore, della partecipazione dei cittadini, della presentazione di osservazioni. E ovviamente del referendum; in una parola gli strumenti della democrazia.

D’altronde, il pensiero liberista sposato ormai ufficialmente anche dalla cosiddetta “sinistra” italiana e accettato da Comuni divenuti complici, grazie anche alla legge Bassanini, ha bisogno di un modo di produzione che non può avere a cuore la cura dei luoghi ma solo il profitto privato degli investimenti. Un prin- cipio astratto, dunque, non organico, non umano, che autorizza il profitto sopra ogni cosa, compresi gli organismi viventi e i loro luoghi identitari.

I comuni, che in Europa sono sempre stati i luoghi della democrazia condivisa e dell’autogoverno su base associativa, diventano così delle maldestre imprese finanziarie, associandosi a privati che non hanno alcun interesse a quell’allargamento dei servizi pubblici che dovrebbe costituire l’obiettivo principe dell’ente locale, e che interessa il privato solo in quanto si fa strumento del suo tornaconto personale.

Non è un caso se il punto principale su cui poggia il No al progetto tunnel della Soprintendenza alle Belle Arti del Molise è quello della difesa del paesaggio come bene immateriale e identitario, che va difeso dal rischio di depauperamento dell’interesse pubblico connaturato alle qualità paesaggistiche dei luoghi.

Ed è proprio per queste affermazioni così lucide e stringenti, difese e sostenute attraverso tutto il complesso iter ministeriale, che la vicenda del tunnel di Termoli assurge a narrazione paradigmatica di lotta dal basso in difesa di quei beni collettivi che l’urbanistica contrattata e la finanza di progetto vogliono sistematicamente sottrarre alla popolazione. Operazione inaccettabile di distruzione di democrazia, di rinuncia al governo intelligente e partecipato del territorio; ma anche, da parte delle amministrazioni, ammissione palese di ignoranza totale di cosa sia una città, di cosa vuol dire fare città, in che cosa consista e come si definisca uno spazio urbano.

E dunque dobbiamo prima di tutto riportare alla dimensione pubblica ogni intervento ed ogni pianificazione di spazio, beni e servizi: ricostruire una vera partecipazione attiva dei cittadini alle decisioni, ma soprattutto condividere un percorso di formazione che porti alla consapevolezza che il territorio, bene di tutti, può essere governato e trasformato, tenendo però presente il risultato finale: quello di uno spazio aperto, pubblico, includente e per tutti accogliente.

Se è utopia pensare di poter realizzare ciò che non è, è però doveroso cercare di restituire la città ai cittadini, ripristinarne la natura pubblica e condivisa, che non può essere oggetto di profitto.☺

 

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