Urbanistica e democrazia
29 Aprile 2017
La Fonte (351 articles)
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Urbanistica e democrazia

Ciò che sta accadendo a Termoli da più di due anni, e parliamo della lotta contro la speculazione edilizia del valore di venti milioni di euro (il tunnel, in breve) è attualmente la sintesi perfetta, e facilmente comprensibile perché vicinissima, della tragica deriva che sta sommergendo il tessuto urbanistico del nostro paese.
E proprio per questo dovrebbe essere seguita con attenzione da tutto il Molise, che appare invece inconsapevole (o complice?) del fatto che il brutto copione termolese sarà certamente riprodotto in ogni dove.
Ma proviamo ad andare oltre il tunnel, e a cercare gli aspetti politici ed ideologici di questa vicenda: politici perché attengono alla vita pubblica di una città, ed ideologici perché dietro a queste dubbie operazioni speculative traspare una precisa concezione del mondo e dei beni comuni. Nulla di casuale, dunque, e non semplice sete di guadagno da parte di privati.
Viviamo in un’epoca di selvaggio neoliberismo, che sta erodendo a velocità fulminea gli obiettivi per noi irrinunciabili: la riconversione ecologica della produzione, il dovere di redistribuire ricchezza, il paesaggio e l’ambiente come beni comuni, la necessità di ideare collettivamente nuove forme di sviluppo dei territori a partire dall’autogoverno delle comunità locali, chiamate a partecipare alle scelte decisionali.
Scriveva Guido Viale nel 2014 che la nostra epoca è caratterizzata da un’estensione dei conflitti, non ultimo quello ingaggiato appunto contro l’ambiente, il territorio, i beni comuni, dal quale discende ovviamente i conflitto di ognuno contro tutti gli altri, migranti in primis.
Il diritto alla città si trasforma dunque (e il recente decreto Minniti sul Daspo lo conferma chiaramente) da diritto all’inclusione e al potere decisionale a diritto di ghettizzare, marginalizzare, espellere, per trasformare la città in un giardino pulito chiuso da barriere e proprietà di pochi privati.
E le amministrazioni locali si trasformano in mere esecutrici della politica europea, accettano senza fiatare ogni riduzione di spesa, che le priva di risorse, e privatizzano allegramente i propri servizi pubblici, svendendoli agli speculatori, di solito multinazionali, che non riescono più ad arricchirsi con la produzione industriale. La scellerata legge sulla finanza di progetto consente loro, in più, di scegliere partner privati per operazioni edilizie che quasi sempre comportano appunto la vendita di parti di territorio pubblico; e con l’ ultima geniale pensata, l’edilizia contrattata, annunciano trionfalmente, vantandosene, che la progettazione stessa della città verrà realizzata insieme ai costruttori.
Cosa significa praticamente tutto questo? Niente più Piani Regolatori, figuriamoci poi quelli partecipati che avevamo sognato di costruire insieme. Niente più idea di città come spazio pubblico, da pensare in base al primato dell’interesse comune; niente più ricerca e progettazione universitaria per elaborare urbanistica ed edilizia come espressione dell’ essenza storica e umana di una comunità. I comuni, che hanno rappresentato storicamente i luoghi dell’autogoverno associativo, si riducono ad attrattori di capitali privati, facendo propria con entusiasmo (e quel che è peggio facendola via via interiorizzare anche ai cittadini inconsapevoli e distratti) la convinzione che sia moderna e inevitabile la dipendenza da investitori esterni.
E se l’urbanistica subisce tutto questo, e non di rado se ne fa complice, ecco che il cerchio si chiude, e la democrazia diventa una parola priva di senso: il concetto stesso di comunità locale confligge con questo modo di intendere l’ amministrazione di una città. Cittadini consapevoli e desiderosi di essere partecipi delle scelte diventano un ingombro fastidioso, se amministrare vuol dire contrattare la concessione di nuove costruzioni con il pagamento degli oneri previsti per legge, o far riqualificare alcune aree sanando in cambio irregolarità edilizie, o come nel nostro caso stravolgere il volto stesso della città dandone una parte in totale gestione ad un privato.
Abbiamo dunque bisogno di comunità: intesa non nel senso reazionario di clan che si chiude per difendersi dallo straniero, come intende Salvini, ma nel senso di insieme di cittadini responsabili e impegnati che vogliano condividere una visione del proprio territorio, mettendo insieme dal basso un progetto di città e politica.
Questo bisogno di comunità deve essere fatto proprio dall’urbanistica moderna: perché in esso è il punto nodale del rapporto tra città e individuo, tra città e politica: tutti noi siamo parte del mondo globalizzato, ma al contempo sentiamo ancora forte il bisogno di appartenenza ad un territorio che sia comunità di origine e luogo di relazioni, per non sentirci privi di paese, spaesati. Nello stesso tempo, però, la comunità deve essere macchina efficiente che ci fornisca i servizi pubblici di cui abbiamo bisogno per vivere.
L’edilizia contrattata e la finanza di progetto, che comuni come il nostro addirittura vantano in convegni autocelebrativi (vedi “dibattito pubblico” in salsa termolese e incontro del nove marzo scorso) sono la morte di questa idea di comunità. Sono la morte della democrazia, perché in loro è insita la distruzione di ogni forma di partecipazione dei cittadini.
Gli urbanisti dovrebbero ripartire da questo bisogno di comunità: dalle lotte per i beni comuni, dalle mille forme di autoassociazionismo, resistenza e movimentismo dal basso che continuano grazie a Dio ad attraversare il nostro paese; e condividere con loro la consapevolezza che presupposto utopistico (ma non irrealistico) di ogni forma di partecipazione alla vita pubblica è il considerare possibile “realizzare ciò che non è”.

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