Ho deciso di mettere ordine in soffitta e di eliminare i tanti, inutili libri scolastici che la invadono, ma non mi priverò del mio vecchio Inferno di Dante anche se ho edizioni più moderne dei miei figli. Apro, quasi accarezzando, le sue pagine ingiallite che sanno di polvere e muffa: al margine di una di esse, tra le sbiadite annotazioni a matita, carpite alle spiegazioni erudite e narcisistiche della mia insegnante, ce n’è una in biro rossa che certo ho scritto mentre la mente evadeva dalle sudate carte per rincorrere momenti felici vissuti in altri luoghi e in altro tempo: “Un ricordo è ancora tra le mie mani e solo una parola mi fa tremare…” era il recitato di Monia, una musica in voga in un’estate di fine anni ‘60. Sul giradischi andava il 45 giri in vinile al cui ritmo lento e dolcissimo modulavamo respiri e passi, anzi non i passi, ma il dondolio dei nostri giovani corpi abbracciati.
Jorge veniva da Caracas, occhi scuri, barba morbida e profumata, jeans bianchi, maglietta a righe e non aveva faticato ad inserirsi nella mia comitiva. Si andava a ballare tutti i pomeriggi in una villa fuori dal paese, immersa nel verde. Jorge era rapito da quella musica: “Esta mùsica me encanta” mi sussurrava all’orecchio… Spesso lasciavamo gli altri ragazzi e andavamo a sederci ai bordi della vasca rotonda con lo zampillo e i pesci. Jorge adorava Dante e voleva sentirlo leggere nella lingua originale. Più di una volta, nella borsa, portavo il mio libro di scuola, l’Inferno commentato da Sapegno; lui seguiva attento la mia voce tremante d’emozione che leggeva al meglio l’imprescindibile V Canto, quello di Paolo e Francesca.
Allora anche per me “galeotto fu il libro e chi lo scrisse!”
Jorge s’intendeva di pittura; la mattina, solo, tornava alla villa col suo piccolo cavalletto portatile per dipingere en plein air; amava molto gli impressionisti: Monet, Renoir, Degas, Cezanne…; la tecnica con cui riproducevano sulla tela, sensazioni e percezioni visive che le condizioni di luce, l’acqua, il cielo, la natura comunicavano loro nella mutevolezza delle ore del giorno e delle stagioni. Come loro usava pennellate rapide; forme dai contorni sfumati, quasi dissolte, vaporizzate nella luminosità dell’atmosfera; tinte chiare, insolite, dove non esistevano il marrone, il nero e dove anche le ombre erano colorate.
Avevo preso l’abitudine di seguirlo; mi mettevo alle sue spalle taciturna ed estasiata e lo guardavo dipingere. La tela era una distesa di papaveri appena accennati, traboccante di vividi rossi addolciti da tocchi di arancio, da sprazzi di giallo, da teneri verdi…
Per parecchi giorni mi fu impossibile raggiungere Jorge, non potevo uscire impunemente a qualsiasi ora. Quando tornai alla villa con il cuore che mi batteva forte, lui non c’era più; al suo posto il piccolo cavalletto rovesciato e, in mezzo all’erba, la tela; tra il rosso screziato dei papaveri si stagliava la sagoma di una figuretta azzurra, indistinta, dalla lunga gonna al vento…; dietro la tela una scritta a pennarello: “Con mucho cariño”.
Non ho rivisto più Jorge, né ci siamo mai scritti; non so se esiste ancora in un angolo di mondo, ma in un angolo di cuore – il mio – sì!“Un ricordo è ancora tra le mie mani…”
Ho deciso di mettere ordine in soffitta e di eliminare i tanti, inutili libri scolastici che la invadono, ma non mi priverò del mio vecchio Inferno di Dante anche se ho edizioni più moderne dei miei figli. Apro, quasi accarezzando, le sue pagine ingiallite che sanno di polvere e muffa: al margine di una di esse, tra le sbiadite annotazioni a matita, carpite alle spiegazioni erudite e narcisistiche della mia insegnante, ce n’è una in biro rossa che certo ho scritto mentre la mente evadeva dalle sudate carte per rincorrere momenti felici vissuti in altri luoghi e in altro tempo: “Un ricordo è ancora tra le mie mani e solo una parola mi fa tremare…” era il recitato di Monia, una musica in voga in un’estate di fine anni ‘60. Sul giradischi andava il 45 giri in vinile al cui ritmo lento e dolcissimo modulavamo respiri e passi, anzi non i passi, ma il dondolio dei nostri giovani corpi abbracciati.
Jorge veniva da Caracas, occhi scuri, barba morbida e profumata, jeans bianchi, maglietta a righe e non aveva faticato ad inserirsi nella mia comitiva. Si andava a ballare tutti i pomeriggi in una villa fuori dal paese, immersa nel verde. Jorge era rapito da quella musica: “Esta mùsica me encanta” mi sussurrava all’orecchio… Spesso lasciavamo gli altri ragazzi e andavamo a sederci ai bordi della vasca rotonda con lo zampillo e i pesci. Jorge adorava Dante e voleva sentirlo leggere nella lingua originale. Più di una volta, nella borsa, portavo il mio libro di scuola, l’Inferno commentato da Sapegno; lui seguiva attento la mia voce tremante d’emozione che leggeva al meglio l’imprescindibile V Canto, quello di Paolo e Francesca.
Allora anche per me “galeotto fu il libro e chi lo scrisse!”
Jorge s’intendeva di pittura; la mattina, solo, tornava alla villa col suo piccolo cavalletto portatile per dipingere en plein air; amava molto gli impressionisti: Monet, Renoir, Degas, Cezanne…; la tecnica con cui riproducevano sulla tela, sensazioni e percezioni visive che le condizioni di luce, l’acqua, il cielo, la natura comunicavano loro nella mutevolezza delle ore del giorno e delle stagioni. Come loro usava pennellate rapide; forme dai contorni sfumati, quasi dissolte, vaporizzate nella luminosità dell’atmosfera; tinte chiare, insolite, dove non esistevano il marrone, il nero e dove anche le ombre erano colorate.
Avevo preso l’abitudine di seguirlo; mi mettevo alle sue spalle taciturna ed estasiata e lo guardavo dipingere. La tela era una distesa di papaveri appena accennati, traboccante di vividi rossi addolciti da tocchi di arancio, da sprazzi di giallo, da teneri verdi…
Per parecchi giorni mi fu impossibile raggiungere Jorge, non potevo uscire impunemente a qualsiasi ora. Quando tornai alla villa con il cuore che mi batteva forte, lui non c’era più; al suo posto il piccolo cavalletto rovesciato e, in mezzo all’erba, la tela; tra il rosso screziato dei papaveri si stagliava la sagoma di una figuretta azzurra, indistinta, dalla lunga gonna al vento…; dietro la tela una scritta a pennarello: “Con mucho cariño”.
Non ho rivisto più Jorge, né ci siamo mai scritti; non so se esiste ancora in un angolo di mondo, ma in un angolo di cuore – il mio – sì!“Un ricordo è ancora tra le mie mani…”
Ho deciso di mettere ordine in soffitta e di eliminare i tanti, inutili libri scolastici che la invadono, ma non mi priverò del mio vecchio Inferno di Dante anche se ho edizioni più moderne dei miei figli.
Ho deciso di mettere ordine in soffitta e di eliminare i tanti, inutili libri scolastici che la invadono, ma non mi priverò del mio vecchio Inferno di Dante anche se ho edizioni più moderne dei miei figli. Apro, quasi accarezzando, le sue pagine ingiallite che sanno di polvere e muffa: al margine di una di esse, tra le sbiadite annotazioni a matita, carpite alle spiegazioni erudite e narcisistiche della mia insegnante, ce n’è una in biro rossa che certo ho scritto mentre la mente evadeva dalle sudate carte per rincorrere momenti felici vissuti in altri luoghi e in altro tempo: “Un ricordo è ancora tra le mie mani e solo una parola mi fa tremare…” era il recitato di Monia, una musica in voga in un’estate di fine anni ‘60. Sul giradischi andava il 45 giri in vinile al cui ritmo lento e dolcissimo modulavamo respiri e passi, anzi non i passi, ma il dondolio dei nostri giovani corpi abbracciati.
Jorge veniva da Caracas, occhi scuri, barba morbida e profumata, jeans bianchi, maglietta a righe e non aveva faticato ad inserirsi nella mia comitiva. Si andava a ballare tutti i pomeriggi in una villa fuori dal paese, immersa nel verde. Jorge era rapito da quella musica: “Esta mùsica me encanta” mi sussurrava all’orecchio… Spesso lasciavamo gli altri ragazzi e andavamo a sederci ai bordi della vasca rotonda con lo zampillo e i pesci. Jorge adorava Dante e voleva sentirlo leggere nella lingua originale. Più di una volta, nella borsa, portavo il mio libro di scuola, l’Inferno commentato da Sapegno; lui seguiva attento la mia voce tremante d’emozione che leggeva al meglio l’imprescindibile V Canto, quello di Paolo e Francesca.
Allora anche per me “galeotto fu il libro e chi lo scrisse!”
Jorge s’intendeva di pittura; la mattina, solo, tornava alla villa col suo piccolo cavalletto portatile per dipingere en plein air; amava molto gli impressionisti: Monet, Renoir, Degas, Cezanne…; la tecnica con cui riproducevano sulla tela, sensazioni e percezioni visive che le condizioni di luce, l’acqua, il cielo, la natura comunicavano loro nella mutevolezza delle ore del giorno e delle stagioni. Come loro usava pennellate rapide; forme dai contorni sfumati, quasi dissolte, vaporizzate nella luminosità dell’atmosfera; tinte chiare, insolite, dove non esistevano il marrone, il nero e dove anche le ombre erano colorate.
Avevo preso l’abitudine di seguirlo; mi mettevo alle sue spalle taciturna ed estasiata e lo guardavo dipingere. La tela era una distesa di papaveri appena accennati, traboccante di vividi rossi addolciti da tocchi di arancio, da sprazzi di giallo, da teneri verdi…
Per parecchi giorni mi fu impossibile raggiungere Jorge, non potevo uscire impunemente a qualsiasi ora. Quando tornai alla villa con il cuore che mi batteva forte, lui non c’era più; al suo posto il piccolo cavalletto rovesciato e, in mezzo all’erba, la tela; tra il rosso screziato dei papaveri si stagliava la sagoma di una figuretta azzurra, indistinta, dalla lunga gonna al vento…; dietro la tela una scritta a pennarello: “Con mucho cariño”.
Non ho rivisto più Jorge, né ci siamo mai scritti; non so se esiste ancora in un angolo di mondo, ma in un angolo di cuore – il mio – sì!“Un ricordo è ancora tra le mie mani…”
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