Villa azzurra
25 Maggio 2017
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Villa azzurra

È un documento. È un atto di dolore. È una focalizzazione della memoria sulla psichiatria infantile a Collegno. È un libro duro. Assolutamente da leggere.

La foto di una bimba di 10 anni, legata al proprio letto, nuda, come Gesù in croce, gli occhi teneri e rassegnati, fu pubblicata dall’Espresso il 26 luglio 1970 e fece scoppiare lo scandalo. Anche se le autorità sanitarie e amministrative degli ospedali psichiatrici di Torino (da cui Villa Azzurra dipendeva) già sapevano, e da tempo.

“Villa Azzurra si chiamava il manicomio dei bambini, chiuso definitivamente nel 1979 dopo essere stato un lager per decenni. Sul confine fra Grugliasco e Collegno, in fondo alla via Lombroso. L’ingresso principale è diventato un antro. Guardando verso l’alto leggi ancora cosa doveva essere: “Sezione medico-pedagogica”.

Tutt’intorno il complesso di padiglioni anni 30 è stato riutilizzato. Solo un angolo di mattoni e vetri rotti resta abbandonato a se stesso. Segno indelebile di un senso di colpa collettivo per avervi lasciato migliaia di bambini, a 120 per volta, a loro volta abbandonati a metodi aguzzini gestiti da medici aguzzini e infermieri che, per divenire tali, avevano bisogno di due soli requisiti: attestato di “sana e robusta costituzione” e la licenza elementare. La formula giuridica per rinchiuderli, anche ai 3 e ai 4 anni d’età, era “pericolosi a sé e agli altri”, i medici sottoscrivevano. Per gli infermieri erano più semplicemente arnesi. Oggetti che venivano spesso e volentieri legati ai cancelli del giardino interno, ai termosifoni bollenti d’inverno, al letto e non solo per la notte. Ci fu chi subì questo genere particolarmente crudele di contenzione per giorni e giorni di fila, immobilizzato da cinghie di cuoio ai polsi e alle caviglie

Il manicomio dei bambini c’era già prima del 1938, quando vennero trasferiti nella nuova Villa Azzurra 20 bambini degenti sino allora in un reparto di isolamento di Collegno. Ma è stato solo nel 1964, con la nomina a direttore del professor Giorgio Coda, che in quella struttura la violenza fine a se stessa assurse a dignità di scienza con fini terapeutici. Coda faceva lottare i bambini fra loro sino allo sfinimento; Coda ricorreva agli elettromassaggi pubici, quando, trascorsa una notte legati al letto i piccoli avevano bagnato le lenzuola. Nel manicomio degli adulti Coda aveva sperimentato il metodo su etilisti e gay.

Angelo è un sopravvissuto. Uno di quei bambini che hanno passato l’infanzia in un manicomio. La sua è una delle otto storie raccolte da Alberto Gaino nel suo libro Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione per la collana le Staffette, edizioni Gruppo Abele 2016. Gaino ha riaperto le cartelle cliniche di quei vecchi istituti. “L’ospedale psichiatrico – spiega – è stato nei suoi centocinquant’anni di vita un’immensa discarica umana in cui sono state rovesciate, come rifiuti organici, generazioni di uomini e donne, e bambini, tutti vulnerabili”.

Ma torniamo a Angelo” […] Finii, dice Angelo, nel manicomio per i più piccoli. Giusto per avere un letto e un piatto di minestra. Ovviamente questi sono pensieri che ho avuto dopo. A quell’età, di male potevo avere fregato solo i ciucci all’asilo. Poi, a Villa Azzurra, che era una caserma con le suore che punivano per ogni nonnulla, diventai oppositivo, come dicevano tutti. Mia madre mi ha chiamato Angelo e so bene che non lo sono mai stato, un angelo. Cominciai a essere legato al letto, o al termosifone, che avevo quattro anni. Così diventai un ribelle. Non scappavo soltanto. Rispondevo alzando anch’io la voce. Era arrivato Coda, lo psichiatra elettricista. Mi ha dato la scossa cinquantadue volte. Non mi ricordavo quant’erano state. Ho rubato la mia cartella clinica e là c’è scritto che Coda mi fece mettere la gommetta fra i denti e i due tappi alle tempie tutte quelle volte. A dire il vero, e questo me lo ricordo senza consultare le carte, secondo come gli girava, l’elettricità me la dava ai genitali, alla colonna vertebrale, ai reni, oltre che alla testa. Diceva alla suora: “Si è fatto la pipì addosso? Sì? Insegniamogli a non farla più”. Una volta partita l’elettricità nel mio corpo, non capivo più niente e svenivo. Partivi come un frullatore. Solo che eri tu, una persona. Non una macchina. Ho letto quello che ha detto un altro ricoverato cui avevano fatto l’elettroshock, a proposito dei movimenti del suo corpo: “Li senti come se fossero gli ultimi della tua vita … mi sembrava che fosse come morire. Sono andato a leggermi cosa scrisse Coda: “Il medico che si commuove crea la piaga purulenta”. Continua Angelo: Gli abusi ce li ho stampati nel cervello più di tutto il resto. C’era l’infermiere che si prendeva e si portava, dove solo lui sapeva, le bambine più sviluppate. Che avevano tredici anni, ma anche undici. La suora caporeparto, quella che andava tanto d’accordo con Coda, lo copriva. Ce ne furono una o due, di quelle bambine, che erano diventate grosse, la suora ci diceva: “Mangiano tanto, troppe caramelle”. Quali caramelle? Non ne vedevamo mai. Poi, quell’una o due bambine non le abbiamo più viste. Ho capito e saputo dopo anni che l’infermiere le aveva messe incinte. […] Ricordo che sotto la palazzina dove dormivano le suore c’era la sala chirurgica e che ci portavano dei malati che non tornavano. Mi ricordo di bambini e bambine che hanno portato là e non sono tornati da noi. I più grandi di noi dicevano che ci facevano esperimenti in quella sala chirurgica. Faceva paura quando portavano via qualcuno. Sono passati cinquant’anni e sono convinto che facessero esperimenti su di noi. Esperimenti di farmaci che ci intontivano: e mi hanno avvelenato di rabbia il sangue. Tipo il contenermi per qualsiasi cosa. Neanche i cani alla catena diventano buoni. Io non sono diventato buono. Vado per la mia strada. Sono solo e creperò solo. Non so se invecchiando o improvvisamente.

Questa è una testimonianza del libro: leggetelo: per ricordare, per stare all’erta. I “manicomi” non chiudono mai. I crudeli vivono sempre.

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