vola l’avvoltoio  di Luciana Zingaro
27 Aprile 2012 Share

vola l’avvoltoio di Luciana Zingaro

 

…Ci fucilarono

e di medesima pallottola cademmo,

poiché cosa sono io senza di te

cos’è un’ala senza l’altra ala.

Adem Gajtani, versi dedicati ai due compagni e amici Boro e Ramiz, l'uno serbo e l'altro albanese, miti positivi della lotta per l’indipendenza della Jugoslavia, in cui durante gli anni ‘40 del Novecento combatterono fianco a fianco macedoni e albanesi, serbi e montenegrini, bosniaci e croati e sloveni.

Non è trascorso un secolo.

6 aprile 1992 – 6 aprile 2012: vent’anni dall’assedio di Sarajevo da parte delle truppe serbe.

Un assedio durato 44 mesi e costato 11.500 morti, 1.500 dei quali bambini: ne parlano in questi giorni di “celebrazione” le piccole sedie rosse che insieme alle migliaia di altre costellano la città, memoria di vite che senza ragione non sono più state, come degli ospiti che abbandonino d’improvviso il loro seggio.

Fu bersagliata dai cecchini serbi Sarajevo, e colpita nei simboli della sua prestigiosa storia (la Biblioteca Nazionale, ad esempio, le pagine degli antichi manoscritti conservativi a svolazzare nella città dopo il bombardamento); fu sventrata giorno dopo giorno, mese dopo mese la capitale del melting-pot europeo, dove fino ad allora avevano convissuto, contaminandosi e rispettandosi, cristiani bizantini e latini, musulmani ed ebrei sefarditi, bosniaci, serbi, croati, macedoni.

Perché era città curiosamente, pericolosamente plurale e poliedrica Sarajevo: la chiesa ortodossa, quella cattolica di rito latino, la sinagoga, la moschea, a poche centinaia di metri l’una dall’altra; e il caffè preparato in maniere tanto diverse, che altrove mai; e la più alta percentuale di matrimoni misti dell’intera Jugoslavia del tempo. Così urbana Sarajevo che si racconta che i cristiani cattolici avessero in casa delle pentole apposite per cucinare piatti tipici ebraici e dispense fornite per non offendere la dieta dei musulmani in occasione di un banchetto comune.

Dal ‘92 la rovina. L’omicidio di un uomo serbo-bosniaco durante un matrimonio, il padre dello sposo; i serbi di Sarajevo, di rimando, occupano militarmente le zone strategiche della città, mentre paramilitari serbi compiono il primo di una lunga serie di massacri di bosniaci nel nord del Paese.  Comincia in questo modo la guerra civile in Bosnia: la salda minoranza serba di Sarajevo, di religione cristiana ortodossa e legata a doppio filo a Belgrado, contro la più folta comunità bosniaca in prevalenza musulmana. Un conflitto interetnico e interreligioso dunque, innestato però su profonde e malamente taciute ragioni di ordine politico-strategico. Dietro l’assedio di Sarajevo e la guerra di Bosnia c’è, infatti, il processo di disgregazione della Jugoslavia,  avviatosi a seguito della morte del maresciallo Tito nel 1980. Già la Slovenia e la Croazia si erano rese indipendenti dalla Federazione jugoslava e proprio allora, all’inizio del ‘92, si accingeva a farlo anche la Bosnia, guidata dal Presidente della Repubblica, il musulmano Izetbegović. Ma alla secessione bosniaca si opponeva il Partito Democratico Serbo di Bosnia di Karadžić che, obbedendo alle direttive del Presidente serbo Milosevic, risponde all’anelito autonomista del paese con violenze di ogni genere a danno dei bosniaci sull’intero territorio nazionale e con l’occupazione militare di Sarajevo, dall’aprile del ‘92 puntellata di cecchini pronti al tiro al bersaglio sul bosniaco musulmano.

L’assedio di Sarajevo e la guerra civile in Bosnia sono durati quattro anni, sono costati migliaia di vittime, sono stati segnati da crimini nefandi, dal genocidio allo stupro etnico alla reclusione in campi di concentramento in nulla inferiori a quelli nazisti; in più la dissoluzione di un’ identità come quella bosniaca che aveva fatto dell’amalgama del diverso il suo carattere fondante: mai viste fino ad allora donne col burka in città, ora invece se ne vedono, per poche che siano.

L’Europa, l’Occidente, l’Onu assistettero pressoché inerti, tollerarono per comodo quando addirittura non appoggiarono i criminali; infine la decisione che “basta”, la magia dei bombardamenti Nato sugli obiettivi militari strategici dei Serbi e nel novembre del ’95 gli accordi di Dayton, con cui si sancì la nascita di due “stati etnici” indipendenti l’uno dall’altro, quello dei serbi e quello dei croato-musulmani di Bosnia, due stati che vivono tuttora tra grandi difficoltà istituzionali e politiche.

È una confusione piena di dettagli la memoria che ho di quegli avvenimenti.

Ricordo il disorientamento allo scoppio della guerra e la ricerca del chi e del dove e del perché, l’urgenza di capire insomma, carte geografiche alla mano e articoli di giornale da decifrare tanto erano ingarbugliati; ricordo le discussioni interminabili sera su sera con gli amici del Centro della Pace di Campobasso, uniti dallo stupore davanti all’affastellarsi di notizie incoerenti e sempre terribili, animati dal bisogno di agire in qualche modo pur di reagire alla mostruosità dei fatti; ricordo con precisione le immagini di Sarajevo in fiamme e l’orrore dei reclusi di Mostar scheletriti dietro una rete di filo spinato e le prove filmate del genocidio di Srebrenica, dove le truppe serbo-bosniache del generale Mladić massacrarono migliaia di bosniaci; mi risuona preciso in mente il ritornello della canzone che con gli amici usavamo ripetere durante una marcia della pace, quando ci spingemmo fino a Ginevra Dove vola l'avvoltoio?Avvoltoio, vola via vola via dalla terra mia che è la terra dell'amor.

Vent’anni fa non è un tempo lontano e Sarajevo è vicina di là dal mare la puoi quasi toccare, cantava Aleandro Baldi: ancor meglio non possiamo, non dobbiamo dimenticare.

E non solo perché la storia-maestra di vita ci ha così crudelmente insegnato o ripetuto, nel caso non fossero bastati il nazismo ed il fascismo, che il nazionalismo senza regola è cultura di morte; non possiamo né dobbiamo dimenticare perché la memoria è l’unico umile strumento di cui disponiamo per rendere omaggio e un soffio di vita ai tanti uomini, donne, bambini che sarebbero con noi e non sono più.☺

LucianaZingaro@libero.it

 

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