candido o l’ottimismo
21 Marzo 2010 Share

candido o l’ottimismo

 

Certamente singolare è il destino del Candido di Voltaire, pubblicato nel 1759 a Ginevra, dove l’autore si era rifugiato a causa delle continue persecuzioni  subite per aver scritto feroci satire e opere invise alle gerarchie ecclesiastiche e aristocratiche del tempo. Esempio di “contes philosophiques”, il libro nasce per circolare quasi in sordina per volontà dello stesso autore, che lo considera di genere minore rispetto alle collaborazioni alla stesura dell’Enciclopedia, ai poemi, ai tragedie e saggi filosofici, da lui composti e rigorosamente coerenti all’educazione classica appresa dai Gesuiti. Candido, invece, diviene subito un caso letterario e riceve un’accoglienza che perdura a tutt’oggi, dovuta  alla chiarezza e freschezza delle idee, esposte con senso dell’humor e gusto per il paradosso, ma anche all’efficacia dello stile che lo rendono ancora una lettura piacevole e ricca di spunti di riflessione. Candido mansueto e credulone, vive una giovinezza spensierata nel castello di un barone in Vestfalia che appare ai suoi occhi un paradiso in terra, poiché tutto sembra essere “per il meglio” come sostiene, a dispetto dell’evidenza, Pangloss istitutore di Cunegonda, figlia avvenente del barone, nonché filosofo seguace delle teorie ottimistiche leibniziane. L’innamoramento, corrisposto, del protagonista per Cunegonda determina la sua cacciata dal castello e decreta l’inizio di mille avventure e peripezie in giro per mezzo mondo, nel tentativo di ricongiungersi all’amata anch’essa travolta dalla Guerra dei sette anni che insanguinò l’Europa e che la porta a essere venduta sia come amante di lusso che come schiava.

Anche Candido rischia spesso la vita: come soldato dei Bulgari, poi come bersaglio dell’Inquisizione e di  svariati truffatori e per aver osato rivelare al barone, fratello di Cunegonda, nonché capo gesuita in Sud America, l’intenzione di sposare la giovane senza possedere i titoli necessari per proporsi. In queste avventure Candido è accompagnato e sostenuto da una serie di personaggi, ognuno portatore di una propria posizione riguardo alla vita e alla storia: Il buon senso, in un’epoca di aristocratici in esilio ridicolmente attaccati a questioni di orgoglio di casta e ai privilegi dell’antico regime ormai al tramonto, di ricchi mercanti, di avventurieri e di schiavi in attesa di riscatto, richiede che il corso dei pensieri sia più libero, più consono alla relatività dell’alternarsi, spesso casuale, delle vicende personali e collettive, che sappia resistere all’intolleranza dell’ortodossia, al pregiudizio della autorità e della tradizione. L’ingenua domanda del protagonista “Perché esiste il male in questo mondo” riceve molte risposte che vanno da atteggiamenti manichei, all’intervento di una “provvidenza” non ben identificata ma che, in sostanza, non esauriscono il problema di come raggiungere una felicità perseguibile. Nella conclusione del libro, i personaggi si troveranno a vivere insieme e a trovano un equilibrio esistenziale coltivando ognuno “il proprio giardino”, una scelta che può sembrare riduttiva ma che  valorizza singole capacità attraverso un attività concreta.

Riconoscere senza mistificazioni le miserie e gli orrori del mondo per ciò che sono aiuta, secondo Voltaire, a combattere la difficoltà di dare una spiegazione a tutto il male che c’è nella vita. La ragionevolezza ci indica perlomeno il senso delle nostre azioni. La società è destinata ad andare, nel suo insieme, verso la miscredenza: la metafisica è vista come un pensiero che non porta nessuna utilità pratica e ormai si  ritiene poco credibile l’esistenza di un’armonia prestabilita. E la fede? Nel considerare i fatti umani pertinenti a un ambito laico di discussione, la fede continua comunque a svolgere il suo ruolo destinata, però, ad appartenere sempre più alla sfera dell’individuale e del privato. Come dire che questo piano di riflessione non sia ancora più che attuale.☺

paolapresciuttini@virgilio.it

 

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