Capitalismo e sacro
17 Giugno 2023
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Capitalismo e sacro

Il capitalismo del nostro tempo è sempre più simile ad una religione o ad una idolatria. Il cristianesimo del XX secolo ha combattuto una battaglia campale contro l’ateismo per la minaccia che rappresentava per la fede, senza accorgersi, fino a papa Francesco, che nessuna ideologia era mai riuscita come il capitalismo ad eliminare la religione ebraico-cristiana dal cuore delle persone e dei popoli. L’intreccio tra economia e sacro è arcaico e, ad un tempo, post-moderno. Le prime riflessioni sull’economia non provengono da banchieri o commercianti, ma nacquero all’interno del mondo del sacro, da profeti e sacerdoti.
Nel poema di Gilgamesh e nel libro della Genesi si trovano riflessioni sulla economia perché essa non è altro che la vita della gente. La Bibbia e i Vangeli parlano della vita degli esseri umani che sono instancabili cercatori di senso ovunque. Siamo sempre più immersi nelle cose e assediati dalle merci, ma il loro linguaggio laico non ci basta. In un paesaggio fatto prevalentemente di economia cerchiamo senso e segni anche e soprattutto nelle cose del mercato e del business. I capitalismi hanno spiriti e gli spiriti amano i loro luoghi e i loro geni. L’Europa ha generato autentici miracoli economici (e di welfare state) grazie alla biodiversità culturale e spirituale, ma grazie anche alle varietà delle forme di banca e di impresa. Il non-profit e il for-profit del nord, mentre nel sud si sono inventate le casse rurali, le casse di risparmio, le piccole imprese, le cooperative che non hanno al centro il profitto ma la vita e le sue tante cose. L’Europa continuerà a generare nuovi miracoli se salverà le vocazioni dei luoghi senza appiattirsi su un modello unico di tipo anglosassone che le sta rubando l’anima spirituale ed economico-sociale in nome della meritocrazia e degli incentivi.
Un mondo che perde diversità alla lunga perde anche valore aggiunto e ricchezza. La diversità dipende da molte cose ma soprattutto dagli spiriti religiosi ed etici della gente. È necessario approfondire il dibattito tra capitalismo e religione e portarlo fuori dalle piccole nicchie dove si trova rinchiuso da circa un secolo. Già prima di Marx e le sue analisi teologiche del capitalismo e della finanza, Smith e Genovesi hanno trattato di economia a partire dalle grandi questioni teologiche del loro tempo: dalla Provvidenza (mano invisibile) alla Teodicea (giustificazione teologica del male) che sono alla radice della spiegazione della esistenza dei mercati e della loro capacità di trasformare un male (l’avarizia) in bene (ricchezza delle nazioni).
Ugualmente, senza conoscere la teologia di Tommaso d’Aquino e di Agostino d’Ippona, non capiamo la teoria economica né il capitalismo. Pochi anni dopo Marx nel 1905 Max Weber pubblica i suoi lavori su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo; l’idea chiave è la de-sacralizzazione del mondo occidentale. Passano pochi anni e il 1921 diventa l’anno decisivo per la cosiddetta “teologia economica”. Il filosofo tedesco Walter Benjamin scrive un breve e denso testo dal titolo Il capitalismo come religione; contemporaneamente il filosofo e teologo russo Pavel Florenskij, in un contesto culturale molto diverso, tra l’agosto e l’ottobre 1921, tiene un corso di lezioni all’Accademia Teologica di Mosca sulla dimensione sacra del capitalismo. Weber annuncia un mondo de-sacralizzato, Benjamin e Florenskij invece affermano che il capitalismo non ha eliminato il sacro dal mondo perché è “diventato esso stesso un culto, una religione”. Per Benjamin “in Occidente il capitalismo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita, il capitalismo… Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo ma si è tramutato nel capitalismo”. Molto forte ed efficace è la metafora biologica del ‘parassita’: il capitalismo è un cristianesimo fagocitato e trasformato, una metamorfosi del bruco in farfalla. Lo scritto di Benjamin contiene anche una sorta di profezia: “in seguito tuttavia ne avremo una visione d’insieme”.
Per Benjamin e Florenskij il capitalismo è una religione di solo culto, di sola prassi. In realtà oggi noi sappiamo che nel secolo appena trascorso la religione capitalistica ha prodotto dogmi e una sua teologia offerta dalla teoria economica e manageriale. La forza culturale del capitalismo sta proprio nell’essere diventato una esperienza globale onnicomprensiva e onniavvolgente. È nella dimensione di sola prassi quotidiana che trae la sua forza: crea e rafforza la sua cultura alimentandosi nel culto feriale di miliardi di persone divenute “consumatori” dei suoi prodotti; siamo immersi in ripetute pratiche quotidiane di culti di acquisto, vendita, investimenti. Anche nelle imprese che, nel Novecento, erano in genere pensate e vissute sul modello della ‘comunità’, sta crescendo la stessa cultura commerciale. Siamo passati progressivamente all’impresa-mercato che oggi domina indisturbata la scena. Fino a pochi decenni fa, in Europa e non solo, il registro relazionale che fondava imprese e/o cooperative era quello del patto; anche il contratto di lavoro era soprattutto un patto. Oggi la cultura che si respira nelle imprese, nei loro culti e nelle loro liturgie è la stessa che si respira nei grandi centri commerciali, nelle banche e sempre più nei social media. In questi culti e in queste pratiche – più che nelle business school e nelle università – si alimenta la cultura-idolatria del capitalismo. Ma da qui deriva anche un corollario interessante: per superare l’idolatria capitalistica occorrono nuove prassi, nuove esperienze. Non basta scrivere teorie, perché ogni cultura nasce dal culto e dal pane quotidiano.☺

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