Custodi dei fratelli
3 Dicembre 2014 Share

Custodi dei fratelli

In una cultura infarcita di reminiscenze bibliche e religiose in genere, come la nostra, l’idea che abbiamo di alcuni personaggi è automatica e scontata, tanto che per definire un certo tipo di persone, usiamo persino i nomi di alcuni personaggi biblici. Se di una persona si dice che è un “Caino”, si capisce subito che si tratta di una persona malvagia, in quanto rimanda al racconto della Genesi (4,1-17), che ricorda un solo fatto di Caino: l’avere ucciso a tradimento il fratello Abele. Di Abele invece non si dice molto a livello popolare, anche se su di lui, sempre grazie alla bibbia, si è costruita tutta una teologia che ne fa il primo appartenente alla chiesa (i teologi parlano di ecclesia ab Abel) o quantomeno l’immagine che anticipa Gesù, l’innocente ucciso per i nostri peccati. Ma se impariamo a leggere il racconto biblico senza pregiudizi, come se lo scoprissimo per la prima volta, ci rendiamo conto che Caino ha ben altro spessore e il ruolo di Abele è ridotto a semplice comparsa. Alla nascita di Caino (che significa geloso o acquisto o addirittura spada, nomi che hanno a che fare con la concretezza e con la forza) Eva esulta e attribuisce la nascita a Dio stesso. Di Abele (che significa vapore, vanità, termine ripreso all’inizio del Qoelet) si dice solo che è fratello di Caino: il suo spessore è determinato dal fatto di essere riconosciuto o meno da Caino come fratello. Il narratore vuole dire che l’altro, nella sua fragilità, mi sta di fronte come fratello e io sono fratello solo perché c’è un altro che mi determina; la questione è se Caino lo riconosce, perché il seguito vede solo lui come protagonista.

L’innesco della tragedia è dato da Dio stesso che considera il dono di Abele migliore di quello di Caino. Al di là di interpretazioni di carattere rituale o morale, la logica di Dio, che si mantiene lungo tutta la bibbia, è quella di scegliere sempre il minore, il più debole (e chi è più debole di Abele che significa vapore?). Caino non accetta questa logica, ma Dio instaura con lui un dialogo, come farebbe (o dovrebbe fare) un padre di fronte alla rabbia di un figlio, invitandolo a rialzare il volto abbattuto, a guardare in faccia suo fratello come fratello e dicendogli che la rabbia è un istinto che deve essere dominato, altrimenti divora come una bestia feroce in agguato. Caino non ascolta e uccide il fratello. A questo punto si dovrebbe scatenare l’ira di Dio, nella nostra mentalità giustizialista; invece Dio parla di nuovo a Caino, richiamandolo alla sua responsabilità: “Dov’è tuo fratello?”. È la seconda domanda che Dio fa a un uomo, dopo quella fatta ad Adamo: “Dove sei?” (3,9) e insieme costituiscono la base per capire l’uomo secondo la bibbia e che sono sintetizzabili nel comandamento che racchiude tutta l’etica biblica: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18).

Queste due domande sono come l’esplosione primordiale da cui si forma tutta la bibbia, Nuovo Testamento compreso. La risposta di Caino è un’accusa a Dio: “Sono forse il custode di mio fratello?”, intendendo dire che è Dio a doversi prendere cura. In realtà Dio aveva fiducia di Caino e chiedendo dove è Abele fa capire che effettivamente lo aveva affidato a Caino, perché gli aveva parlato, aveva interpellato la sua intelligenza e i suoi sentimenti, aveva indicato la strada da percorrere, attraverso il controllo dei propri istinti. Caino ha rifiutato questo ruolo ed è per questo che Dio fa appello al grido di Abele, che fino ad allora neppure il lettore ha sentito: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo” (4,10). Nel far parlare le vittime (come è avvenuto nei tribunali della riconciliazione nel Sudafrica) Dio ha la speranza che Caino, il carnefice, cambi; cosa che di fatto avviene: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono” (4,13). Adesso Caino inizia ad avere paura, si sente braccato, entra nella stessa situazione della vittima, la vulnerabilità: “Sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà” (4,14). Il colpo di genio del narratore sta in questo esito: Dio, che all’inizio era dalla parte di Abele, perché debole, ora si mette dalla parte di Caino che è entrato nei panni della vittima, riconoscendo la sua strutturale fragilità. Nel decreto di Dio (nessuno tocchi Caino) sta il fondamento del rifiuto radicale della pena di morte. Se la legge di Mosè la prevede (vita per vita) è ancora una volta, per dirla con Gesù, per la durezza del cuore umano (Mc 10,5), come per il ripudio; anche in questo caso dovremmo dire con Gesù che all’inizio non era così, perché Dio ha considerato una nefandezza la pena di morte: “Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte” (4,15).

La storia di Caino non finisce con la fuga e il vagabondaggio, ma con la costruzione di una città, che porterà il nome non suo ma del figlio. Dall’assunzione della responsabilità per la morte del fratello, causata dalla gelosia per non essere stato considerato il primo da Dio, capirà che solo facendo spazio all’altro, potrà dominare l’istinto omicida, che è sempre in agguato nell’animo umano, come dimostrerà un pronipote di Caino, Lamec: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido” (4,23), facendo della pena di morte uno strumento per affermare il proprio dominio sugli altri: “sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette” (4,24). Nella storia di Caino e Abele troviamo espresse in nuce le due possibilità di scelta dell’uomo: dominare e distruggere l’altro, non riconoscendolo fratello, oppure creare la possibilità per risolvere i conflitti nell’istituzione della comunità (la città). Queste due alternative, ci dice la bibbia, non sono scelte immutabili, in quanto anche dopo aver commesso il male, c’è lo spazio per il riscatto, perché Dio non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva (Ez 18,23).☺

 

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