Derive del capitalismo
25 Dicembre 2015
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Derive del capitalismo

Tutti affermano oggi che il sistema ha bisogno di nuove regole. Ma non si dice se le nuove regole debbano limitarsi a una ripulitura e a una rinfrescata degli appartamenti o investire le fondamenta del palazzo. Ora, è improbabile che si verifichino crolli imminenti del sistema capitalistico, però questo capitalismo finanziario non sembra essere tecnicamente emendabile, in quanto socialmente e politicamente insostenibile. Queste ragioni riguardano la stabilità del sistema, la sua governabilità, l’allocazione delle risorse, la distribuzione e, soprattutto, la base di legittimazione etica.

Instabilità

La liberalizzazione dei movimenti di capitale fu salutata da M. Friedman come l’alba di una nuova era di stabilità. Ebbene, nei due decenni seguenti si sono avute decine di crisi monetarie e valutarie di portata internazionale, culminate nella più recente e più devastante. Mentre l’inflazione “normale” può essere fronteggiata con misure di restrizione monetaria, non vi sono meccanismi di controllo dell’inflazione finanziaria. La deregolazione del sistema ha portato lo stesso alla sregolatezza: come quel cannone del romanzo di Victor Hugo che, strappato ai suoi ormeggi, spazza la tolda della nave in tempesta.

La globalizzazione ha determinato un forte aumento del grado di interdipendenza dell’economia mondiale. L’ interdipendenza richiede di essere governata. La tesi di chi sostiene l’autogoverno è smentita da quanto sta accadendo: c’è un vuoto di governo dell’economia globalizzata. Fino a ieri un certo grado di governo dell’economia mondiale era assicurato dai paesi economicamente egemoni. Le egemonie si sono succedute nella storia, da quella romana a quella britannica, assicurata, come si è detto, dalla combinazione tra le cannoniere e il cricket, tra la forza e il consenso. Anche l’egemonia americana, succeduta a quella britannica, poggia su quella combinazione. Certo, ci sono ancora le cannoniere e c’è anche il cricket, ma il modello americano sembra essere in declino. Sono venute alla ribalta nuove grandi potenze, come la Cina e l’India. Altre si preparano ad entrare, come il Brasile, o a rientrare, come la Russia. E poi c’è una novità: i poteri apolitici, i governi privati delle corporation multinazionali, che hanno redditi comparabili a quelli degli Stati (dei cento primi percettori di reddito del mondo cinquanta sono Stati e cinquanta corporation), e i poteri occulti dei paradisi fiscali.

Dietro la globalizzazione dei mercati finanziari c’è una grande controffensiva del capitalismo contro lo Stato, e del capitale contro il lavoro organizzato. Sul piano mondiale si manifesta con la fine della sovranità nazionale. Sul piano nazionale assume le forme della privatizzazione della vita sociale e della degradazione della qualità politica. Assistiamo a un processo di mercatizzazione della politica. La corruzione politica cessa di essere una trasgressione per diventare una prassi universalmente accettata attraverso l’acquisto in massa di partiti e di imprese elettorali. È un processo circolare: degrada la politica ad affare, screditandola, e promuove la domanda di privatizzazione e di mercatizzazione.

Qui emerge il nesso tra privatismo e populismo che costituisce una minaccia mortale per la democrazia. La società polverizzata in massa indifferenziata di consumatori, non più di cittadini, si espone al vento delle suggestioni collettive. Da istituzione che filtra una classe dirigente attraverso la pubblica discussione, la democrazia si trasforma in un’impresa che produce maggioranze attraverso possenti mezzi di suggestione emotiva e pubblicitaria.

Allocazione delle risorse

La sempre maggiore importanza della finanza rispetto all’economia reale determina conseguenze rilevanti e socialmente perverse nell’allocazione delle risorse. Gli impieghi di risorse che producono alti profitti nel periodo breve, fino a quelli speculativi che si chiudono nel giro di giorni o di ore, sono preferiti agli investimenti di lungo periodo che si traducono in un aumento della capacità produttiva, ma in un periodo più lungo e con tassi di profitto più moderati. Si accelera il ritorno dei capitali, ma a scapito della loro produttività nel tempo. La spinta impressa alla profittività immediata degli investimenti accentua fortemente, nell’allocazione delle risorse, lo svantaggio degli investimenti e della spesa pubblica e frena quindi la produzione di beni collettivi, mentre quella dei beni privati è promossa dalla competizione consumistica, attivata da una poderosa spinta pubblicitaria: 500 miliardi di dollari all’anno (cifra da confrontare con i 70 miliardi di dollari destinati alla ricerca sanitaria o con i 60 destinati agli aiuti ai paesi poveri). Si accompagna l’effetto dell’aumento dei costi degli investimenti pubblici, che solo in piccola parte può essere compensato da un aumento della produttività. Il risultato è una sproporzione allocativa tra le risorse destinate ai beni collettivi (infrastrutture, servizi pubblici, welfare State), sempre più necessari al benessere di società complesse, e i beni privati, anche quelli più futili.

Distribuzione e diseguaglianza

Molti si incartano nella disputa se, come sembra, la diseguaglianza si sia ridotta, ma non di molto, tra i paesi più ricchi e quelli emergenti, e non certo tra i più ricchi e i più poveri; se invece, come sembra, sia sostanzialmente aumentata all’interno dei paesi più ricchi, e drammaticamente all’interno di quelli più poveri. Un fatto è incontrovertibile: in una cultura di esaltazione della ricchezza e dei consumi privati, l’obiettivo dell’eguaglianza (meglio, della diminuzione delle diseguaglianze) è sparito dall’agenda delle priorità economiche e politiche.

Più che di diseguaglianza si dovrebbe parlare di secessione: della formazione di una nuova plutocrazia al di sopra della società, in una condizione di separatezza non solo dei redditi ma dei modi di vita, talvolta dei luoghi, isolati e protetti da polizie private in quartieri recintati; degli spostamenti, effettuati in aerei privati tra aeroporti riservati; dei convegni organizzati in zone esclusive. L’indice più significativo di questa secessione è costituita dai guadagni faraonici assicurati ai dirigenti supremi, totalmente sganciata da qualunque criterio meritocratico, per assumere un carattere di prelievo arbitrario, di rendita posizionale. Segno più evidente della separazione tra il guadagno e il lavoro, la cui identificazione costituiva, all’origine del capitalismo, la fonte del suo orgoglio e della sua legittimazione morale. Platone diceva che una società ineguale sono due società. Questo sdoppiamento significa in sostanza che la società non c’è più.

Legittimazione etica

L’aspetto che sembra in ultima analisi più grave è la sua delegittimazione morale. Il dominio della finanza è l’espressione estrema dell’autoreferenza e dell’alienazione: di un’accumulazione rivolta a nessun altro fine che non sia l’accumulazione stessa. Viene in mente l’invettiva dell’italiano Bernardo Davanzati, nel Cinquecento, alla fiera di Besançon “dove non vi vanno i popoli a comprar mercanzie ma solamente cinquanta o sessanta cambiatori con un quaderno di fogli (…) Quelli di Bisenzone non sono debiti o crediti effettivi ma arbitri rivolture e girandole che non servono al comodo della mercanzia ma solamente all’utile del denaro”. Il capitalismo ha sempre avuto bisogno di una legittimazione “esterna”, che fosse la grazia weberiana o la felicità degli utilitaristi. L’autolegittimazione dell’avidità è, come l’autoregolazione dei mercati, un autoinganno.

E qui si innesta l’altra formidabile questione esistenziale che si è volutamente tralasciata a causa della sua ampiezza. La riduzione della società a mercato spinge l’esistenza umana verso un altro processo autodistruttivo: la degradazione della sua base ecologica naturale. L’identificazione dell’economia con l’accumulazione genera una crescita letteralmente sterminata, che può segnare la fine non solo del capitalismo, ma dell’avventura umana. Lasciato a se stesso il capitalismo rischia queste due derive fatali: la distruzione della società umana e delle sue basi naturali di sopravvivenza. Mai un sistema storico di organizzazione sociale è stato così prossimo all’onnipotenza e alla rovina.☺

 

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