gli interessi in campo
20 Febbraio 2010 Share

gli interessi in campo

L’incapacità italiana – in vario modo, tipica dell’occidente moderno – di perseguire il bene comune deriva dall’avere un assetto istituzionale, operante spesso più di fatto che di diritto, il quale rende del tutto improbabile il perseguimento del bene comune. Chi persegue il bene comune viene penalizzato, mentre chi persegue il proprio interesse egoistico – purché in modo formalmente lecito – viene premiato. E ciò accade secondo regole riconosciute e istituzionalizzate, non come un effetto indesiderato e inatteso. Succede in quasi tutti i campi della vita sociale, dall’imposizione fiscale all’uso dei servizi di welfare, dai contratti di lavoro al sistema previdenziale, dal modo di trattare la famiglia al modo di elargire i cosiddetti nuovi diritti civili. Gli attori politicamente più rilevanti non perseguono il bene comune.

La tradizione moderna europea in campo sociale è figlia della volontà del sovrano illuminato. Lo stato giacobino francese sostituirà il Monarca assoluto con la Repubblica, ma lo schema in ordine alla società, rimane verticale: la salvezza viene dall’alto, da un’autorità che sta al di sopra di tutti i consociati e le persone che compongono le comunità; i francesi dicono “l’etate-providence”.

L’ultimo modello di questo “socia- le” (parola sparita dal vocabolario politico e sostituita solo dalla parola “liberale”) è il cosiddetto welfare mix. Le istituzioni sono sempre meno coercitive e sempre più seducenti: un modello che non ha bisogno di imporre scelte all’individuo, gli pone davanti un ventaglio di opzioni a cui può aderire in modo supposto indipendente, ma lo spettro delle scelte è controllato dalle istituzioni stesse. Ne deriva un modello di “socialità” e di “servizi”  fondato su concorrenza di interessi materialistici, utilitaristici e individualistici. Un esempio per capirci: proprio in questi giorni i presidi delle scuole superiori fanno il giro delle scuole medie per “presentare” la loro  scuola, in modo da “sedurre” gli alunni ad iscriversi. Vedremo presto i presidi accompagnati dalle ragazze pon pon? Come conciliare ciò con i corsi di “orientamento”?

La crisi di tale modello si rivela, in profondità, nei paradigmi che lo sostengono: la crisi dei modelli fiscali iniqui, l’impossibilità di far fronte alla rivoluzione delle aspettative crescenti di benessere, l’assistenzialismo passivizzante e umiliante. Vi si aggiunge l’erosione dei poteri dello Stato in un contesto di globalizzazione la quale, a sua volta, crea nuove povertà e accumula nuove sfide ecologiche. L’impronta umana di questo modello risulta sempre più insostenibile per le società e per l’intero pianeta: non solo non affronta i bisogni emergenti, ma si rivela patogeno in quanto genera i problemi di cui vuol presentarsi risolutore (cfr. il problema del lavoro e della mobilità umana). Da questa “monocultura della mente” – come dice Vandana Shiva – deriva una società più sofferente causa il prevalere esclusivo di un  intreccio di economico e politico; il resto è irrilevante per la cittadinanza, è affare privato nel gioco della domanda-offerta del mercato.

Non meraviglia, allora, che, per quanto se ne proclami ogni giorno il riconoscimento, non esiste un concetto giuridico di bene comune: è ancora un nobile concetto etico di nessuna rilevanza giuridica. Tutto fin’ora è stato racchiuso nei concetti di “beni privati/individualistici” e “beni pubblici” in quanto in mano alle istituzioni della società (Stato, province, comuni) che ne avrebbero dovuto garantire l’accesso e il godimento a tutti.

La democrazia deliberativa, i cui meriti storici sono fuori di dubbio, non è più in grado di sostenere istituzioni politiche capaci di assicurare una equa distribuzione dei frutti dello sviluppo e di dilatare gli spazi di libertà dei cittadini. Come nella arena del mercato le regole della competizione economica servono ad assicurare una efficiente allocazione delle risorse per un più alto tasso di profitto, così i gruppi politici, i partiti gareggiano per vincere massimizzando i relativi consensi: la sindrome del 51%. L’idea base del modello è che le imprese gestiscono i mercati e i governi regolano le imprese; le burocrazie, di vario tipo,  gestiscono l’amministrazione pubblica e il governo controlla e gestisce le burocrazie. Si rifletta anche sul nesso tra simile democrazia competitiva e il fenomeno sempre più ampio noto come corto-termismo (short-termism): i gruppi politici predispongono la propria piattaforma elettorale pensando alle elezioni successive per confermarsi al potere, non agli interessi delle generazioni future. I programmi elettorali diventano sempre più general-generici, sempre più spazio ottengono gli esperti delle tecniche di persuasione; di qui la conseguente miopia di cui sembra caratterizzata la gran parte delle scelte politiche.

Lo Stato, deputato a produrre norme vincolanti e di diritto, è superato da altri soggetti capaci di produrre norme vincolanti, anche extra omnes, sebbene non abbiano territorio né siano retti da istituzioni democratiche: dalle imprese  transnazionali, alle organizzazioni non governative (123 nel 1951 più di 2.000 oggi), agli organismi interstatali come il WTO e i G8, ecc… e più di 100 corti internazionali di varia natura che generano norme al di fuori del diritto internazionale.

Il bene comune, invece, deve essere costantemente generato e rigenerato attraverso processi sociali in cui sia data la centralità alla persona umana, alle relazioni di un mondo vitale e alle sue formazioni sociali, quelle che fanno la società civile. Il bene comune non è un tutto già preordinato o il risultato di utilità individuali. Conserva sempre una fondamentale caratteristica “relazionale”: può essere generato insieme e non è escludibile per nessuno che ne abbia parte, non è frazionabile e non è somma di beni individuali. «Dire bene comune è dire un bene relazionale in quanto dipende dalle relazioni messe in atto dai soggetti l’uno verso l’altro e può essere fruito solo se essi si orientano di conseguenza» (Donati). I beni non sono competitivi, come ad es. la vita, oggetto di godimento e portatrice di diritti non in quanto bene privato individualistico in conflitto con altri, né pubblico nel senso di bene statale, ma propriamente “comune”  di ogni singolo soggetto in relazione con gli altri. Si affaccia una nuova generazione di diritti, al di là dei diritti civili (le libertà individuali) e dei diritti politici o economico-sociali di welfare come fin’ora rappresentati: la generazione dei diritti umani; diritto umano in quanto è diritto ad una relazione personalizzante, diritto ad una relazione umanizzante e non ad una cosa o una prestazione.

La riprova che l’etica pubblica odierna non implica un bene comune in senso pieno e relazionale si ha nei casi in cui i problemi delle nuove povertà, della precarietà, della pace, dello sviluppo, dell’ambiente non sono fatti dipendere dalle concrete relazioni umane messe in atto dai soggetti compresenti, ma dall’intervento di un Potere politico che impone una legge. La tendenza a chiedere regole ulteriori non favorisce soluzioni ma aumenta solo la paura o la smania di sicurezza senza relazioni. Non ne scaturiscono soluzioni efficaci ai problemi sociali perché si lascia completamente da parte il coinvolgimento dei poveri, degli emarginati, dei devianti.

Pace, sviluppo sostenibile, ambiente sano, uscita dalla povertà e dal degrado sociale sono beni comuni che possono essere ottenuti solo “relazionalmente”, ovvero, possono essere prodotti solo assieme, senza che nessuno sia escluso dalle decisioni e dai processi, e non risulteranno mai somma di utilità individuali competitive. ☺

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