I giorni e le storie
5 Maggio 2015 Share

I giorni e le storie

Il mondo ha perso un pezzo della sua memoria. È morto Eduardo Galeano, lo scrittore uruguayano che forse meglio di qualsiasi altro scrittore ha saputo raccontare la storia dell’America Latina. Lo faceva raccontando piccole storie di uomini, donne e bambini che ha conosciuto nella sua vita di scrittore rivoluzionario. Ci ha fatto capire che la storia è fatta di piccole storie. Tante, tantissime piccole storie che, messe insieme, fanno la storia. Ma occorre uno che riunisce queste piccole storie e chi le racconta, come ha fatto Galeano.

Galeano ha scritto anche che tutti noi siamo nati come figli delle giornate e che “ogni giornata ha una storia e noi siamo le storie che abbiamo vissuto”.

La storia del Primo Maggio è una storia lunga. Ufficialmente è nata negli Stati Uniti dove il 1 maggio 1886 gli operai di Chicago lottarono per la giornata di lavoro di 8 ore. Ma già 30 anni prima, il 1 maggio 1856, c’era stata in Australia una manifestazione di massa con la quale gli operai chiedevano la riduzione del numero di ore lavorative. Allora, questa giornata, una giornata storicamente di lotta e non di festa, ha una storia lunga almeno 129 anni. Di questi, 67 giornate del primo maggio formano anche la mia storia. Ed è questa che voglio raccontare.

La prima manifestazione del primo maggio l’ho vissuta quando avevo quasi 6 anni. Avevo una strana sensazione quel giorno, non ero mai stata fra tanta gente, e mentre guardavo vedevo uomini e donne e anche bambini con un garofano rosso – naturale o artificiale – sulla camicia o sulla blusa. Era il 1948, la gente era mal vestita e mal nutrita, a Berlino si vedevano dappertutto le ferite della guerra che era finita solo tre anni prima. E la DDR, il paese che mi avrebbe visto crescere e studiare e lavorare, non era ancora nata.

Da quel 1 maggio 1948 non ho mai rinunciato a questa manifestazione, a questa esperienza di comunità, di fare parte di quelli che lavorano, di fare parte di milioni di persone che nello stesso giorno manifestavano in tutti – o quasi tutti – i paesi del mondo. Ogni tanto ho manifestato in altri paesi, a Mosca, a Praga, a Budapest, a La Havana, in Messico, in Nicaragua. Dappertutto c’era lo stesso sentimento, la stessa fraternità fra sconosciuti, l’unica cosa che cambiava era il fiore che portavo sulla blusa.

Credo che in tutti quegli anni solo due volte non ho potuto partecipare alla manifestazione del primo maggio. La prima volta era nel 1985, mi trovavo con mio marito italiano a Roma, in casa di un suo amico. A Roma c’era una manifestazione dei sindacati, ma il nostro ospite preferiva invitarci a bere uno o due cocktail invece di andare in piazza. Quest’uomo, che era stato compagno di clandestinità di mio marito in Brasile, aveva lottato in quel paese, durante la dittatura dei militari, per riconquistare il diritto dei lavoratori a manifestare il primo maggio, ma adesso, in questa primavera romana, non ci portava in piazza. Non capivo perché.

La seconda volta che ho perso la manifestazione è stata a Berlino, il primo maggio 1989. Nel mese di gennaio dello stesso anno c’era stata la tradizionale manifestazione in onore di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, e fra i manifestanti c’erano stati poche decine di “dissidenti” che portavano con loro un telone con una frase di Rosa Luxemburg: “La libertà è sempre la libertà di quelli che la pensano diversamente”. Il gruppetto di dissidenti era stato arrestato e portato via dalla piazza, ma ancora a maggio, le autorità della DDR avevano paura che la stessa cosa sarebbe potuta succedere durante la manifestazione degli operai, e per poter partecipare a questa manifestazione si doveva presentare la tessera d’identità. Di fronte a questa “misura di sicurezza”, decidemmo con Dario di tornare a casa. Eravamo delusi e preoccupati, ma non potevamo prevedere che i mesi della DDR erano contati, che il 9 novembre dello stesso anno, l’esperimento dello ”stato degli operai e contadini” sarebbe finito. Fallito.

Il primo maggio che più mi è rimasto nella memoria è quello del 1974. Mi trovavo in Africa, in Guinea Bissau, una ex-colonia portoghese appena diventata indipendente, ma non ancora riconosciuta dalla ex-potenza coloniale. Io ero la traduttrice di una delegazione di giovani della DDR, e avevamo posti di onore sulla piccola tribuna. Era la prima volta che gli operai della Guinea Bissau manifestavano per il primo maggio. Più che una manifestazione, si trattava di un ballo collettivo, allegro e rumoroso. La sera, invitati dagli abitanti di un quartiere della città a festeggiare, fummo coinvolti in balli e rumore di tamburi che, dopo un’iniziale inibizione, spingevano anche noi a ballare, o a cercare di ballare. Ricordo una signora che, mentre io facevo dei timidi movimenti di ballo, mi voleva offrire una testa di pesce che galleggiava in un brodo di olio. Non mangio mai il pesce, e men che meno uno che mi guarda con gli occhi grandi, ma sapevo anche che non dovevo respingere l’offerta. Finalmente misi la mano sulla mia pancia per far capire alla donna che ero incinta, cosa che non era vera, ma la donna accettò la mia scusa e si allontanò. Fra donne, ci capiamo sempre!

Ma la festa non era finita: ritornando al nostro “albergo” -l’ex-caserma delle truppe coloniali portoghesi – ci fu data la notizia della liberazione di Saigon, la fine della guerra del Vietnam, e questo evento si doveva festeggiare sul serio: i russi salirono nelle loro stanze e ritornarono con una bibita alcoolica prodotta da loro con caffè in polvere e alcool. Seduta con tutti loro – tedeschi, russi e africani – sul fondo della piscina senza acqua, non potevo immaginare che il primo Maggio 2015 in Guinea Bissau, fra i manifestanti si sarebbe trovata mia figlia Jasmina.

Lei si trova in un paese dove questa giornata storica è ancora una giornata di lotta, di rivendicazioni, mentre io mi trovo in un paesino dove il primo maggio si riduce a un concerto.☺

 

eoc

eoc