Il manto della giustizia
“Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivestiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre. Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio” (Bar 5,1-2).
Il Libro di Baruc è un libro che stimola fortemente alla conversione, aiutando a riconoscere il proprio peccato e ad assumersene le responsabilità, non per cadere sotto i colpi di una coscienza assediata dai rimorsi ma per tornare al Signore e vivere con lui un autentico rapporto di alleanza.
Il libro è attribuito a Baruc (il cui nome significa “Benedetto”), segretario e amico del grande profeta Geremia, ma non è scritto da lui ed è considerato dagli ebrei un apocrifo perché non è scritto in ebraico. Per i cattolici è un libro deuterocanonico che sembra risalire al periodo ellenistico-maccabaico (II secolo a.C.), epoca in cui si coltiva la prassi di rivolgersi a Dio mediante preghiere sotto forma di confessioni e attraverso l’elogio della Sapienza e in cui si rivolgono a Gerusalemme numerosi incoraggiamenti e inviti alla speranza.
Il libro si presenta come una sorta di sintesi dei principi basilari della riflessione postesilica, intenta a far comprendere ciò che è accaduto al popolo di Dio per evitare che l’esilio rappresenti uno scandalo e porti alla perdita della fede in Yhwh. Si tratta di un libro scritto per sostenere la fede d’Israele alle prese con la persecuzione ad opera dei seleucidi, letta come una sorta di remake della persecuzione subita nel V secolo ad opera dei babilonesi.
Nella confessione pubblica di Bar 1,15-3,8 vi è il riconoscimento delle colpe d’Israele: Dio viene scagionato dalla colpa di aver abbandonato il suo popolo o di aver esagerato con la punizione nei suoi confronti e il popolo s’impegna ad una vera conversione, consapevole che il perdono viene dall’alto perché dono di Dio. Alla confessione pubblica segue l’elogio della Sapienza (3,9-4,4) che si può riscontrare nel creato e che è stata condensata nella Torah. Nella lode alla Sapienza appare anche l’invito al popolo ad essere fedele e a non abbandonare più la vera fonte della sapienza che è Dio e a recidere ogni legame con l’idolatria.
Il profeta illumina il popolo in lutto con un’esortazione alla speranza (4,5-5,9), annunciando il perdono e il ritorno nella terra, se manifesterà un desiderio sincero di conversione, e lo invita a riappropriarsi della sua identità più profonda. Il libro si conclude con il capitolo 6 detto anche Lettera di Geremia dove si ricordano le cause dell’esilio e appare una satira feroce contro gli idoli.
Nell’esortazione alla speranza del capitolo 5 il popolo è invitato a fare un’ operazione molto interessante che richiama l’esperienza del battesimo: spogliarsi dell’abito vecchio per rivestire l’abito nuovo. L’immagine dello svestirsi per rivestirsi evoca proprio il passaggio dalla condizione del lutto a quella della festa, dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, da una vita ingiusta a una vita sotto il segno della giustizia. Gerusalemme deve avvolgersi nel manto della giustizia, di una giustizia che non viene da altri se non da Dio. Rivestirsi di questo manto significa diventare collaboratori del Dio giusto che ci giustifica non per renderci inoperosi ma creativi e dinamici nel praticare e diffondere la giustizia.
Oggi amiamo molto dire che l’abito non fa il monaco e il nostro abbigliamento è vario ed eventuale per ogni categoria di persone e ad ogni età. Abbiamo dimenticato però che c’è una veste con cui siamo stati avvolti sin da piccoli: la veste battesimale. Questa veste non è un indumento esteriore ma l’espressione di una vita giustificata in anticipo, dalla quale il Dio giusto spera di cogliere numerosi frutti di giustizia.☺
