il mercato onnivoro   di Silvio Malic
29 Agosto 2011 Share

il mercato onnivoro di Silvio Malic

 

“Le quantità si contendono lo spazio,

le qualità si completano a vicenda”

(Bonnhoeffer, Resistenza e Resa, p.70)

“L’intero edificio dell’economia dello sviluppo è stato costruito su una duplice finzione: la pretesa eternità dei fenomeni sociali e la supposta infinità della natura. Tutto è stato immaginato al di fuori del tempo e dello spazio”. (P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo). È paradossale che nell’epoca della rapida decadenza di tutte le cose si debba immaginare come eterna la possibilità della crescita economica e dei suoi vantaggi. Risulta nefasto che la maggior parte delle scienze sociali contemporanee appaiano inette ad esaminare i fenomeni entro le due dimensioni fondamentali del mondo fisico,  nel quale operano ed esistono tutti i viventi: il tempo e lo spazio. Nella sua straordinaria creatività, lo sviluppo si è mostrato capace di generare, nelle stesse società ricche, nuove forme di povertà, marginalità, degradazione ambientale, insicurezze, abissi di iniquità. Paradossale e incomprensibile appare la posizione in cui si è posta la nostra generazione: siamo diventati i predoni del tempo degli uomini e delle donne che verranno dopo di noi nonché i voraci consumatori dello spazio vitale che loro compete di diritto.

La degradazione temporale dei fatti, in alcuni decenni, ha svelato il suo volto. L’uso dei beni, divenuto consumismo, simbolicamente e di fatto mostra, nella rapidità con cui i beni si trasformano in rifiuti, come la qualità originaria del fenomeno si degrada, la sua positività si rovescia. La riduzione progressiva dei cittadini a puri agenti produttori e/o consumatori corrode il tessuto connettivo della società: trionfa l’economia muore la società; una “inversione dei fini” che si attua sotto i nostri occhi inebetiti. L’economia stessa, fondata su una secolare trama invisibile di relazioni umane va in frantumi. All’interno della società è attiva e produce ricchezza l’economia non calcolata e gratuita come la luce del sole, l’organizza- zione domestica, la cooperazione nella fiducia, la reciprocità, le mutue informazioni, ecc. tutte logiche operanti al di fuori di quelle mercantili. Il Mercato, nuova divinità centrale dell’Olimpo contemporaneo, venerato da sacerdoti di ogni razza, lingua e tribù, é più temibile del Dio di Abramo: gli uomini e il loro benessere, all’origine il fine dello sviluppo della creazione, sono divenuti mezzi e strumenti per l’offerta sacrificale a un Dio vorace e distruttivo.

L’umana aspirazione al meglio, come già rilevava Huizinga negli anni trenta del Novecento, è stata ridotta ad un’ingenua credenza, nel “concetto puramente geometrico del procedere innanzi, mentre –  aggiungeva – può darsi che, un po’ più avanti lungo la strada, sia rovinato un ponte o si sia scavato un abisso”. La memoria storica ci ricorda che per vari secoli il progresso era immaginato come ritorno indietro, all’Eden originario. Da qualche secolo il capitalismo ci ha fatto balenare che il nuovo Eden è raggiungibile con il moto meccanico del proseguire in avanti, in accelerazione parossistica, nella pretesa dogmatica che sia l’unica via. La speranza di un futuro migliore che dava slancio alle società occidentali si è trasformata in una vacua teleologia dell’oltranza.

Ancor più devastante risulta la cancellazione dell’altra dimensione in cui è prosperato lo sviluppo moderno: lo spazio, ovvero la natura, la realtà fisica, il mondo vivente. Tale rimozione costituisce il cuore del più gigantesco paradosso dell’età contemporanea. L’economia, motore primo che trasforma ciò che ci circonda, è fondata su una cultura naturalistica oggettivante, su una calcolata non comprensione dei legami che governano la Terra, sulla cancellazione, di fatto, del mondo fisico. Il paradosso si fa gigantesco negli ultimi decenni allorché la potenza dei processi economici reali (la ragione strumentale abbinata al potere  tecnologico) incide gravemente su tutta la biosfera mentre il pensiero economico che l’ispira ha perduto ogni ancoraggio con la Terra. Addirittura si è giunti all’assurdo concetto di esternalità negative per cui il mondo fisico è fuori dal cancello delle fabbriche come prati, ruscelli, alberi, animali, ma non dentro la fabbrica. Come se tutto ciò che è macchina produttiva oppure oggetti prodotti prima non fossero ferro, rame, piombo, idrocarburi, cereali, animali, ecc. Per intenderci come nel ragionamento tipico delle multinazionali dell’acqua le quali affermano che in Italia si perdono milioni di euro negli acquedotti colabrodo che loro saprebbero recuperare in modo efficiente (esternalità economica negativa), quasi l’acqua fosse un bene prodotto da loro e non un bene naturale da tutelare, salvaguardare e custodire in un atteggiamento inverso di sobrietà, di utilizzo equo e sostenibile e non in un consumo illimitato, a profitto espansivo per gli operatori del settore.

Il principio di precauzione – sarà ripreso in un’ultima riflessione – intende introdurre, in questo groviglio di decadenza culturale, politica ed economica una via di sapienza che ridìa alla libertà d’impresa il carico delle conseguenze delle scelte a breve, medio e lungo termine (la dimensione del tempo), il metodo di approccio rispettoso e non distruttivo dell’ecosistema terra (spazio fisico non cosa ma habitat) e il gusto della comune corresponsabilità senza che alcuni pretendano l’esclusivo appalto delle decisioni (controllo e gestione democratica ed etica dei processi). ☺

 

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