Il mio terremoto
9 Novembre 2015
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Il mio terremoto

Ero all’università, Aula A di Psicologia, la professoressa spiegava la differenza tra mente e cervello, aula gremita, lezione interessante, mi ricordo la gioia di tornare a casa a fine lezione, avrei preso il treno, sarei arrivata a Termoli e finalmente tre giorni di relax, amici e famiglia. Improvvisamente il microfono salta, la professoressa pronunciava parole non udibili, sembrava ridicola mentre gesticolava, nel mentre succedeva qualcosa di strano: lentamente i cellulari di alcuni di noi cominciavano a vibrare, ci volle un po’ di tempo per capire che erano tutti i cellulari di noi molisani; ad uno ad uno uscivamo perplessi dall’aula, e nell’atrio rispondevamo a questi genitori ansiosi, eppure lo sapevano che eravamo a lezione!
Improvvisamente la rabbia, il fastidio e l’intolleranza verso l’invadenza genitoriale, si trasformarono in gelo. Fu lì che capimmo che noi nell’atrio eravamo molisani, i nostri occhi cercavano quelli degli altri stupiti, increduli, spaventati; chiusi i telefoni, per un lungo minuto nessuno disse nulla, e poi tutti di corsa verso casa a fare i bagagli pronti a tornare a supportare a condividere e soprattutto ad accertarsi che le persone amate stessero bene.
Il viaggio di ritorno era un misto di emozioni, ancora non era ben chiaro nella mia testa cosa fosse accaduto, e non avrei mai immaginato l’enormità del danno, ma una volta arrivata a casa le facce della mia famiglia mi rendevano bene il messaggio e arrivata da mia nonna finalmente realizzai.
È questa la catastrofe. Le ferite nei muri, le case distrutte, le persone in lacrime e …San Giuliano, la scuola, le maestre, i bambini.
Sono passati anni, ormai da quella lezione di Storia della Psicologia nell’aula A, la mia ferita è rimarginata ma la cicatrice resta impressa nella memoria. Nonostante il tempo sia trascorso, oggi apro ancora la porta del mio studio ai feriti, vittime dirette ed indirette di quel 31 ottobre, uomini e donne distrutti nell’animo, derubati non solo di figli o nipoti o gambe ma di prospettiva e di potenziale, con gli occhi pieni di domande liquide a cui pensano che io sappia dare una risposta. Perché?
Ed io non lo so il perché. Eppure conosco bene le fasi dell’elaborazione del lutto, conosco bene come affrontare e gestire la seduta, ma piangiamo insieme, perché non c’è un perché. E la mia mente va ai bambini e alle maestre di San Giuliano, e non solo, al terremoto dell’Aquila e a tutti i miei colleghi universitari che hanno vissuto e sono morti in quel giorno, ma anche alle maestre che vengono uccise nei territori di guerra mentre nascondono gli alunni negli armadi per salvare loro la vita, ai bambini maltrattati e venduti come schiavi e schiave da caporali senza scrupoli, a quelli costretti a combattere ed uccidere e ai bambini che con i loro genitori affrontano il mare per arrivare da noi in cerca di futuro migliore ed invece finiscono sulla spiaggia come carcasse di animali; siamo tutti più sensibili quando ci sono i bambini.
Il dolore è sempre dolore, in qualunque lingua, in qualunque stato, qualunque sia il colore della pelle. Quest’anno piangendo per San Giuliano mi piacerebbe che tutti piangessimo non solo per il proprio dolore, ma anche per quello degli immigrati, dei rifugiati, dei bambini schiavi, dei genitori che anche loro perdono figli in mare, o lasciano figli in patria per cercare di migliorare il loro futuro venendo qui a cercare lavoro.
San Giuliano è un’ingiustizia, come lo sono tante altre, questo non allevia il dolore, tuttavia è necessario capire che non si può combattere solo la propria battaglia, ma sposare una causa.☺

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