
La bibbia come alibi
L’inutile strage che sta accadendo a Gaza, dovuta sia alle armi che al dissennato impedimento nei confronti della popolazione di accedere alle risorse per la propria sopravvivenza e per le cure mediche, (e che si sta estendendo anche alla Cisgiordania) impone il dovere di continuare a tenere alta l’attenzione di questa rubrica che si occupa di bibbia. Il motivo è semplice: la bibbia viene usata, insieme alla tragedia della Shoà, come alibi per perpetrare uno dei più esecrabili genocidi della storia contemporanea, con la complicità dell’ Occidente e soprattutto dei governi americani (di ogni colore). È per questo motivo che, continuando a parlare di bibbia, desidero illustrare un tipo di letteratura poco conosciuta, che rimette in questione il dogma del diritto sacro alla terra di Palestina, in modo esclusivo, da parte di chi si identifica con la religione ebraica. L’intenzione non è di rimettere in discussione l’esistenza dello Stato d’Israele ma di ribadire l’altrettanto diritto a stare in quella terra da parte di chi non è di religione ebraica, cioè i palestinesi sia musulmani che cristiani.
Entrando in merito, desidero segnalare un altro libro che si occupa della questione sul piano della storia antica, che coincide con il periodo narrato nell’Antico Testamento nei libri di Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele e 1-2 Re, la cosiddetta storiografia deuteronomistica (perché scritta con l’ottica teologico-etnica del libro del Deuteronomio). Il libro in questione, scritto da Keith W. Whitelam si intitola: L’ invenzione dell’Antico Israele. La storia negata della Palestina (Ed. ECIG).
L’autore parte da quella che può essere definita la “vulgata” della ricostruzione storica e archeologica dell’Israele biblico. Nomi come William Albright, Albrecht Alt e Martin Noth (come anche l’italiano Jan Alberto Soggin) sono molto familiari per chi si occupa di storia d’Israele. A cominciare dal XIX secolo, con l’opera pionieristica di Albright nasce la scienza dell’archeologia biblica in ambito cristiano per dimostrare la veridicità del racconto biblico, messo in discussione dallo studio storico-critico di stampo illuministico. Il lavoro di questi archeologi e storici insieme è fondato sulla premessa che, usando la metodologia storica e della nascente archeologia moderna, si potesse dimostrare l’unicità dell’ Israele antico nel contesto più ampio dei popoli del Medio-Oriente antico. La tesi da dimostrare è che mentre nell’antico Canaan si assisteva all’incapacità da parte di piccole città-stato di tendere ad un’unità statuale organica, è proprio Israele che, in modo quasi miracoloso, sin dall’inizio della sua presenza in Canaan, raggiunge il vertice della costruzione istituzionale grazie alle capacità di personaggi eccezionali come Davide e Salomone per cui si è arrivato a parlare addirittura di un impero salomonico che rivaleggiava con le grandi potenze dell’area (Mesopotamia ed Egitto).
L’archeologia, intesa come lo studio di siti e di reperti, diventava il supporto necessario per suffragare la storia presentata in modo organico proprio dalla bibbia. A questo tentativo cristiano di dimostrare la verità storica della bibbia, si affiancarono ovviamente, con la stessa determinazione, personalità del mondo ebraico, legate al nascente sionismo per dimostrare che, nei secoli, solo Israele, come fosse uno Stato moderno ante litteram, è riuscito, per il tempo dell’esistenza della monarchia, a dare una forma stabile istituzionale a un territorio abitato da gente incapace di creare delle strutture amministrative, cioè gli antichi abitanti della Palestina, cananei e filistei, predecessori di quei palestinesi post-biblici, identificati con gli arabi musulmani, altrettanto incapaci di governare quel territorio a cui solo gli ebrei hanno dimostrato di aver saputo dare una forma di governo. Con lo sviluppo dell’archeologia, però, si è capito che il favoloso impero di Davide e Salomone non ha fondamento; anzi, pensare all’esistenza di uno Stato ebraico di tipo moderno, a quei tempi, è come studiare la Gran Bretagna partendo dalle leggende di Re Artù.
Il pregiudizio costruito nel XIX secolo, tuttavia, è rimasto negli studi storici e archeologici per cui si assiste a una sistematica rimozione di ciò che ha a che fare con gli antichi palestinesi e lo studio dei siti archeologici e dei reperti resta ancorato al confronto con quanto afferma la bibbia, pur non essendoci nessuna prova che i siti corrispondano a quanto racconta la bibbia. Il trucco è questo: aver ridato nomi biblici a siti che in realtà sono muti e che invece, molto probabilmente, erano siti di quei cananei di cui si vuol cancellare la memoria. L’operazione discutibile, metodologicamente, è identificare siti del periodo pre-israelita e del periodo in cui è collocata la monarchia ebraica, con i riferimenti presenti in opere narrative per lo più redatte in epoca persiana ed ellenistica (nel cosiddetto post-esilico); un po’ come gli archeologi dell’antica Grecia che avevano preteso di studiare Troia e la Grecia antica a partire dai poemi omerici. L’atteggiamento corretto, sostiene l’autore, è invece di valutare i dati archeologici per quello che sono: testimonianze di insediamenti umani nell’area palestinese per cui non è affatto dimostrabile che abbiano a che fare con l’Israele biblico che invece, in base allo studio letterario delle fonti, risulta essere piuttosto la proiezione nel passato delle aspirazioni di un gruppo ad avere una terra e uno Stato.
La bibbia va presa per ciò che è: il monumento letterario che ricostruisce un passato mitico per creare una identità a chi si riconosceva nella fede biblica e non può essere usata, se non con molta cautela, per lo studio di reperti antichi. Forse non è un caso che il giudaismo classico ha messo al centro della propria identità non la terra ma la Torah come legge etica, e il cristianesimo ha visto l’Antico Testamento come profezia di Cristo. Usare la bibbia per pretendere di dare fondamento ad uno Stato è invece frutto di un approccio demitizzante alla bibbia come testo religioso, ma “rimitizzante” come fondamento storico dello Stato moderno d’Israele, ritenuto come unica presenza civilizzata in un territorio abitato da gruppi incapaci di darsi delle istituzioni, esattamente come quei cananei che sarebbero vissuti al tempo di quel mitico impero davidico-salomonico, frutto di un’“apparizione” miracolosa guidata o da Dio o dall’ingegno innato del popolo eletto.☺