La storia utile
8 Luglio 2023
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La storia utile

La Public History è un campo delle scienze storiche a cui aderiscono storici che svolgono attività attinenti alla ricerca e alla comunicazione della storia all’esterno degli ambienti accademici, nel settore pubblico come nel privato. È un’invenzione recente – l’AIPH è nata nel 2016 – ma la funzione pubblica della storia è sempre esistita, come parte del lavoro culturale nella società e come impegno civile dello storico. Nell’Università le attività di diffusione e divulgazione compiute fuori dalle sedi accademiche vengono comprese in una sfera che viene definita genericamente e burocraticamente “terza missione”, che si aggiunge alle due missioni fondamentali dell’Università, cioè quella della didattica e quella della ricerca. La terza missione sarebbe (uso di proposito il condizionale) quella che impegna le strutture universitarie a contribuire e incidere sulla realtà, sullo sviluppo umano, sociale ed economico del territorio. Tre parole non possono essere eluse in una visione democratica della cultura: storia, impegno, partecipazione.
Partiamo dalla prima, la “storia”. La storia non è il passato. È la disciplina che studia il passato, ma la vera storia parte dal presente, altrimenti resta esercizio, erudizione, semplice descrizione di come andarono le cose. Si distingue dalla leggenda e dalla cronaca, per il metodo scientifico e un forte legame con l’uso critico delle fonti. La storia non esiste in sé; è qualcosa che si fa, che si fabbrica; è un bisogno umano e sociale. Ogni anno, iniziando le mie lezioni universitarie dico ai giovani studenti che mi interessa il presente e sono preoccupato per il futuro, e che è per questo che faccio lo storico. In questo modo cerco di suscitare in loro una curiosità e un’attenzione verso una materia che normalmente considerano astratta, lontana, non immediatamente percepibile nella sua utilità. Dunque, la storia è la disciplina che studia il passato, ma la vera storia è quella che parte dal presente, parte da noi uomini e donne del proprio tempo. Specialmente in tempi di crisi e di spaesamento, cresce il bisogno di guardare al percorso storico che ci ha condotto nella situazione attuale.
La seconda parola è “impegno”. L’ impegno è il contrario dell’indifferenza e dell’apatia. Quello dello storico e di chi frequenta la storia è un impegno culturale che diventa impegno civile: è l’odio degli indifferenti di Gramsci, è l’I care di don Milani in contrapposizione al “me ne frego” di derivazione fascista, è l’ aneddoto che raccontava Calamandrei a proposito dei due emigranti del Sud Italia in navigazione verso le Americhe: due poveri contadini che stavano su un piroscafo in mezzo all’Oceano, uno si trovava sul ponte, l’altro stava dormendo nella stiva. Quello sul ponte si accorge che la nave comincia a barcollare per via di una furiosa tempesta; preoccupato chiede a un marinaio che cosa stesse succedendo e questo gli risponde sconfortato che se continuerà così, in poco tempo la nave rischia di affondare. Allora l’emigrante impaurito corre a svegliare il compagno e gli dice: “Pasquale, se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda”; e quello risponde: “Che me n’ importa? Unn’è mica mio!”. Ecco questo è l’indifferentismo alla politica, chiosava Calamandrei spiegando ai giovani la ancora giovane Costituzione Italiana e invitando al lavoro culturale e all’ impegno.
La terza parola è “partecipazione”, cioè il coinvolgimento e la possibilità di incidere sulle scelte che ci riguardano. Essa si basa sulla consapevolezza di ciò che abbiano intorno, dei diritti e dei doveri di ciascuno in rapporto alla società. La partecipazione ha anch’essa una sua storia, connessa all’ emergere delle democrazie contemporanee e che oggi ci appare discendente. In Italia essa è anzitutto una grande questione costituzionale: uno dei compiti della Repubblica è infatti quello di promuovere “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 della Costituzione). Oggi c’è una generale crisi della partecipazione, che è ingrediente essenziale della democrazia; si è progressivamente affermato un senso di delega che ha spezzato il legame tra il popolo e le istituzioni. L’abuso crescente della comunicazione mediatica, lo svuotamento degli istituti partecipativi, una politica lontana, la polarizzazione della ricchezza e il rafforzamento di monopoli nel campo della finanza e dell’informazione sono elementi che hanno con­tribuito alla crisi.
Non ho richiamato casualmente queste tre parole. L’ho fatto perché si adattano bene alla riflessione sul nostro tempo, sulla necessità e il senso del lavoro storico, di una conoscenza storica che è, insieme al lavoro culturale in senso lato, strumento per affrontare i problemi che viviamo, per metterci in guardia da un tempo senza storia, per ridare fiducia alle giovani generazioni, allontanando lo spettro dell’impotenza e dell’ ineluttabilità delle cose. Siamo sempre di fronte ad un grappolo di problemi: la ricerca storica, come quella delle altre discipline prese singolarmente, non può illudersi di risolverli tutti, ma può senz’altro contribuire a dipanare la matassa e a costruire un’altra visione del mondo.☺

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