Negli anni ’20 del XX secolo, dopo la fioritura del cubismo, del futurismo e della metafisica, si fa strada una corrente che ripropone la centralità della tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica. È il “rappel à l’ordre“, il ritorno all’ordine che a macchia d’olio coinvolge gran parte dell’arte europea e che coinvolge molti artisti delle varie avanguardie in una pausa di riflessione dopo le rapidissime rivoluzioni apportate all’arte durante la prima parte del secolo.
In Italia il ritorno all’ordine viene intuito soprattutto da Margherita Sarfatti, intellettuale italiana di origine ebraica, che organizzerà, in diretto contatto con Mussolini, una serie di esposizioni sotto il nome di “Novecento italiano”, cui partecipano tutti quegli artisti che si propongono un ritorno al “figurativo” dopo gli sperimentalismi delle avanguardie.
L’Arte del consenso
Nel 1922, con la marcia su Roma, Mussolini porta con violenza al potere il fascismo. Negli anni che seguono, soprattutto a partire dal delitto Matteotti del 1924 e dalle successive leggi “fascistissime”, la dittatura intraprende la costruzione della città fascista, espressione dell’architettura razionalista e della nuova organizzazione ideologica del territorio.
Si instaura un clima di fibrillazione culturale, dentro il quale si fanno avanti istanze spesso contraddittorie, che spingono da un lato verso un’arte popolare e privata (Strapaese), dall’altro verso la creazione di uno stile fascista, magniloquente e statista (Stracittà). Agli artisti vengono offerte molte committenze pubbliche, tutte volte ad esaltare retoricamente il nuovo regime prima, le colonie conquistate poi, e infine il risorto impero romano: è l’arte del consenso sostenuta da artisti convinti assertori dell’ideologia fascista. Agli oppositori non rimane altra possibilità che il tacere.
Per l’arte del consenso notevole importanza assume l’opera di Sironi, che, al di là della sua convinta adesione al fascismo e del suo impegno per costruire un’arte al servizio dell’ideologia di regime, riesce a connotare una concezione pessimistica del destino dell’uomo e un’esaltazione dei valori della civiltà. Nel Manifesto della pittura murale del 1933, pubblicato con Carrà, Campigli e Funi, Sironi dichiara che la pittura murale è l’espressione più autentica dello “stile fascista” e in essa deve prevalere l’elemento stilistico su quello emozionale: questo stile deve essere “antico e allo stesso tempo nuovissimo”.
Sironi partecipò attivamente alla “Mostra della rivoluzione fascista” a Roma nel 1933, i cui aspetti peggiori diventarono i canoni di riferimento per una vasta schiera di operatori artistici, tutti legati solo da un grande conformismo ideologico e da una produzione propagandistica interessante solo come documento storico.
Le leggi razziali
Dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia (1938), il governo fascista decide di mettere ordine anche nel campo dell’arte figurativa. Sull’esempio della Germania, si cerca di predisporre una lista per l’arte “degenerata”, relativa a pittori dell’avanguardia italiana, esaltando nel contempo quell’arte “sana” che avrebbe dovuto rappresentare i valori della razza italica. Alcuni artisti ne pagarono direttamente le conseguenze, perché furono di fatto estromessi dai circuiti ufficiali con operazioni di vera e propria “pulizia etnica”. A Milano per esempio l’israelita Arrigo Minerbi fu costretto a sospendere l’esecuzione di una delle porte del Duomo e la portò a termine solo alla fine della seconda guerra mondiale.
Tuttavia i risultati furono molto contradditori e molti si opposero a questa divisione, non in termini antifascisti, ma solo per la difesa di opere importanti di artisti quali De Chirico, Rosai, Morandi e Carrà. In particolare movimenti come Corrente e la cosiddetta Scuola Romana, paradossalmente si ispirano al vituperato espressionismo tedesco per aggiornare il proprio linguaggio figurativo, come dimostrano Scipione e Mafai e come dimostrerà Guttuso con la sua “Crocifissione”.☺
Negli anni ’20 del XX secolo, dopo la fioritura del cubismo, del futurismo e della metafisica, si fa strada una corrente che ripropone la centralità della tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica. È il “rappel à l’ordre“, il ritorno all’ordine che a macchia d’olio coinvolge gran parte dell’arte europea e che coinvolge molti artisti delle varie avanguardie in una pausa di riflessione dopo le rapidissime rivoluzioni apportate all’arte durante la prima parte del secolo.
In Italia il ritorno all’ordine viene intuito soprattutto da Margherita Sarfatti, intellettuale italiana di origine ebraica, che organizzerà, in diretto contatto con Mussolini, una serie di esposizioni sotto il nome di “Novecento italiano”, cui partecipano tutti quegli artisti che si propongono un ritorno al “figurativo” dopo gli sperimentalismi delle avanguardie.
L’Arte del consenso
Nel 1922, con la marcia su Roma, Mussolini porta con violenza al potere il fascismo. Negli anni che seguono, soprattutto a partire dal delitto Matteotti del 1924 e dalle successive leggi “fascistissime”, la dittatura intraprende la costruzione della città fascista, espressione dell’architettura razionalista e della nuova organizzazione ideologica del territorio.
Si instaura un clima di fibrillazione culturale, dentro il quale si fanno avanti istanze spesso contraddittorie, che spingono da un lato verso un’arte popolare e privata (Strapaese), dall’altro verso la creazione di uno stile fascista, magniloquente e statista (Stracittà). Agli artisti vengono offerte molte committenze pubbliche, tutte volte ad esaltare retoricamente il nuovo regime prima, le colonie conquistate poi, e infine il risorto impero romano: è l’arte del consenso sostenuta da artisti convinti assertori dell’ideologia fascista. Agli oppositori non rimane altra possibilità che il tacere.
Per l’arte del consenso notevole importanza assume l’opera di Sironi, che, al di là della sua convinta adesione al fascismo e del suo impegno per costruire un’arte al servizio dell’ideologia di regime, riesce a connotare una concezione pessimistica del destino dell’uomo e un’esaltazione dei valori della civiltà. Nel Manifesto della pittura murale del 1933, pubblicato con Carrà, Campigli e Funi, Sironi dichiara che la pittura murale è l’espressione più autentica dello “stile fascista” e in essa deve prevalere l’elemento stilistico su quello emozionale: questo stile deve essere “antico e allo stesso tempo nuovissimo”.
Sironi partecipò attivamente alla “Mostra della rivoluzione fascista” a Roma nel 1933, i cui aspetti peggiori diventarono i canoni di riferimento per una vasta schiera di operatori artistici, tutti legati solo da un grande conformismo ideologico e da una produzione propagandistica interessante solo come documento storico.
Le leggi razziali
Dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia (1938), il governo fascista decide di mettere ordine anche nel campo dell’arte figurativa. Sull’esempio della Germania, si cerca di predisporre una lista per l’arte “degenerata”, relativa a pittori dell’avanguardia italiana, esaltando nel contempo quell’arte “sana” che avrebbe dovuto rappresentare i valori della razza italica. Alcuni artisti ne pagarono direttamente le conseguenze, perché furono di fatto estromessi dai circuiti ufficiali con operazioni di vera e propria “pulizia etnica”. A Milano per esempio l’israelita Arrigo Minerbi fu costretto a sospendere l’esecuzione di una delle porte del Duomo e la portò a termine solo alla fine della seconda guerra mondiale.
Tuttavia i risultati furono molto contradditori e molti si opposero a questa divisione, non in termini antifascisti, ma solo per la difesa di opere importanti di artisti quali De Chirico, Rosai, Morandi e Carrà. In particolare movimenti come Corrente e la cosiddetta Scuola Romana, paradossalmente si ispirano al vituperato espressionismo tedesco per aggiornare il proprio linguaggio figurativo, come dimostrano Scipione e Mafai e come dimostrerà Guttuso con la sua “Crocifissione”.☺
A partire dal delitto Matteotti del 1924 e dalle successive leggi "fascistissime", la dittatura intraprende la costruzione della città fascista, espressione dell'architettura razionalista e della nuova organizzazione ideologica del territorio.
Negli anni ’20 del XX secolo, dopo la fioritura del cubismo, del futurismo e della metafisica, si fa strada una corrente che ripropone la centralità della tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica. È il “rappel à l’ordre“, il ritorno all’ordine che a macchia d’olio coinvolge gran parte dell’arte europea e che coinvolge molti artisti delle varie avanguardie in una pausa di riflessione dopo le rapidissime rivoluzioni apportate all’arte durante la prima parte del secolo.
In Italia il ritorno all’ordine viene intuito soprattutto da Margherita Sarfatti, intellettuale italiana di origine ebraica, che organizzerà, in diretto contatto con Mussolini, una serie di esposizioni sotto il nome di “Novecento italiano”, cui partecipano tutti quegli artisti che si propongono un ritorno al “figurativo” dopo gli sperimentalismi delle avanguardie.
L’Arte del consenso
Nel 1922, con la marcia su Roma, Mussolini porta con violenza al potere il fascismo. Negli anni che seguono, soprattutto a partire dal delitto Matteotti del 1924 e dalle successive leggi “fascistissime”, la dittatura intraprende la costruzione della città fascista, espressione dell’architettura razionalista e della nuova organizzazione ideologica del territorio.
Si instaura un clima di fibrillazione culturale, dentro il quale si fanno avanti istanze spesso contraddittorie, che spingono da un lato verso un’arte popolare e privata (Strapaese), dall’altro verso la creazione di uno stile fascista, magniloquente e statista (Stracittà). Agli artisti vengono offerte molte committenze pubbliche, tutte volte ad esaltare retoricamente il nuovo regime prima, le colonie conquistate poi, e infine il risorto impero romano: è l’arte del consenso sostenuta da artisti convinti assertori dell’ideologia fascista. Agli oppositori non rimane altra possibilità che il tacere.
Per l’arte del consenso notevole importanza assume l’opera di Sironi, che, al di là della sua convinta adesione al fascismo e del suo impegno per costruire un’arte al servizio dell’ideologia di regime, riesce a connotare una concezione pessimistica del destino dell’uomo e un’esaltazione dei valori della civiltà. Nel Manifesto della pittura murale del 1933, pubblicato con Carrà, Campigli e Funi, Sironi dichiara che la pittura murale è l’espressione più autentica dello “stile fascista” e in essa deve prevalere l’elemento stilistico su quello emozionale: questo stile deve essere “antico e allo stesso tempo nuovissimo”.
Sironi partecipò attivamente alla “Mostra della rivoluzione fascista” a Roma nel 1933, i cui aspetti peggiori diventarono i canoni di riferimento per una vasta schiera di operatori artistici, tutti legati solo da un grande conformismo ideologico e da una produzione propagandistica interessante solo come documento storico.
Le leggi razziali
Dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia (1938), il governo fascista decide di mettere ordine anche nel campo dell’arte figurativa. Sull’esempio della Germania, si cerca di predisporre una lista per l’arte “degenerata”, relativa a pittori dell’avanguardia italiana, esaltando nel contempo quell’arte “sana” che avrebbe dovuto rappresentare i valori della razza italica. Alcuni artisti ne pagarono direttamente le conseguenze, perché furono di fatto estromessi dai circuiti ufficiali con operazioni di vera e propria “pulizia etnica”. A Milano per esempio l’israelita Arrigo Minerbi fu costretto a sospendere l’esecuzione di una delle porte del Duomo e la portò a termine solo alla fine della seconda guerra mondiale.
Tuttavia i risultati furono molto contradditori e molti si opposero a questa divisione, non in termini antifascisti, ma solo per la difesa di opere importanti di artisti quali De Chirico, Rosai, Morandi e Carrà. In particolare movimenti come Corrente e la cosiddetta Scuola Romana, paradossalmente si ispirano al vituperato espressionismo tedesco per aggiornare il proprio linguaggio figurativo, come dimostrano Scipione e Mafai e come dimostrerà Guttuso con la sua “Crocifissione”.☺
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