le furbate di giacobbe
2 Febbraio 2011 Share

le furbate di giacobbe

 

La storia di Giacobbe (soprattutto Gn 25-33) rappresenta la vicenda di ogni uomo e dei suoi rapporti con i propri simili. Al di là del tema portante che è la storia dei patriarchi, infatti, all’interno delle vicende di questo antenato del popolo di Israele, troviamo delineata la parabola del rapporto tra gli esseri umani, simboleggiati da due fratelli, Giacobbe ed Esaù, che hanno vissuto sempre una rivalità fatta di sotterfugi e inganni, fino alla riconciliazione resa possibile da uno strano incontro con Dio. Un rapporto che si delinea burrascoso fin dalla nascita: i due, infatti, sono gemelli e il primo a nascere è Esaù, ma Giacobbe insidia subito il primato attaccandosi con la mano al tallone del fratello (25,24-26). L’insidia al primogenito, simboleggiata da questa strana modalità di nascita, diventa il tema portante della storia dei due fratelli, fatta di colpi bassi e meschinità.

Il primo episodio, diventato proverbiale è la vendita della primogenitura da parte di Esaù, per un piatto di lenticchie (25,30-34). Il narratore presenta Esaù come superficiale e istintivo, ma mette in evidenza allo stesso tempo il desiderio di potere di Giacobbe, che individua il punto debole del fratello per derubarlo dei suoi diritti. A questa lotta senza esclusione di colpi, partecipa anche la madre Rebecca, che stravede per il gemello minore, mentre Isacco appare incapace di rendersi conto di quale guerra stava avvenendo nella sua casa. L’evento di totale rottura tra i fratelli è il furto della benedizione del padre anziano da parte di Giacobbe che, su suggerimento della madre, si camuffa per sembrare Esaù, che è descritto pieno di peli, a differenza del fratello, molto più gentile d’aspetto. Isacco è quasi cieco e quindi non distingue i due figli accordando la sua benedizione al secondo.

Al di là delle consuetudini, ciò che resta della storia è che, per l’ennesima volta, Giacobbe usa l’astuzia per ottenere i suoi scopi. L’intento del narratore è quello di mettere in evidenza un modo di essere cinico, completamente disattento all’altro. Sebbene il racconto abbia lo scopo di evidenziare le grandi risorse di un popolo (nato proprio da Giacobbe) che, partito da una posizione svantaggiata, grazie al suo ingegno ha acquisto sempre posizioni di rispetto, tuttavia l’autore non si ferma a questo messaggio, che sarebbe fuorviante, perché ha a  cuore una forma di società in cui le relazioni siano improntate non sulla rivalità ma sulla convivenza delle diversità o, ancora meglio, sulla convivialità delle differenze.

Innanzitutto mostra, attraverso l’ironia, che chi agisce in modo ambiguo, prima o poi riceverà lo stesso trattamento: questo infatti accade a Giacobbe quando si trova dallo zio Labano per sfuggire all’ira del fratello e vuole sposarne la figlia minore e più bella, Rachele. Lo zio gli “rifila” con l’inganno la prima figlia, che non doveva essere proprio una venere, dopo aver preteso sette anni di lavoro per sposare Rachele (29,15-30). Solo dopo avere sposato Lia, Giacobbe sposerà Rachele, ma garantendo altri sette anni di lavoro. La convivenza con la famiglia di Labano si fa difficile e Giacobbe è costretto ad andarsene e sa che dovrà passare nel territorio del fratello Esaù, da cui ha dovuto scappare. Si fa precedere da doni per tenerselo buono, forse ricordando che già una volta si era accontentato di un piatto di lenticchie.

È in questa fase che Dio gli appare e combatte con lui rendendolo zoppo (32,23-33). Il senso dello strano incontro e della lotta è quello di far rendere conto a Giacobbe che non è sufficiente usare delle strategie per relazionarsi con l’altro, ma ci sono dei momenti in cui si è ostaggio dell’altro che può decidere di farci vivere o morire e che la vita è frutto dell’ospitalità dell’altro. Dio mostra a Giacobbe che pur avendo potuto ucciderlo, gli ha fatto dono della vita, lasciandogli il segno del pericolo scampato, segno che anticiperà l’accoglienza che riceverà dal fratello, che emerge in tutta la sua grandezza d’animo. Probabilmente anche Esaù ha fatto il suo cammino di conversione per non covare più odio verso il fratello, compiendo quegli stessi gesti descritti da Gesù nella parabola del padre misericordioso: “Esaù gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (33,4).

Nell’incontro dei due fratelli rivali il racconto giunge al suo apice, reso possibile dalla trasformazione interiore di Giacobbe che combatte con Dio, comprendendo che la riuscita nella vita non è frutto tanto di strategie messe in atto per emergere sugli altri, ma è resa possibile dal contributo di chi decide di farci vivere, di condividere con noi lo spazio vitale, perché possa diventare occasione di riconoscimento e servizio reciproco. ☺

mike.tartaglia@virgilio.it

 

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