Mille volte di più
7 Novembre 2023
laFonteTV (3191 articles)
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Mille volte di più

L’antico frammento di saggezza homines dum docent discunt, risalente a Seneca (Lettere a Lucilio I 7, 8) ma meglio noto nella forma abbreviata docendodiscitur, secondo il quale insegnare è anche imparare per sé stessi, può ora vantare una nuova brillante occorrenza: «non si finisce mai di imparare a scuola. Già, perché nella scuola, chi impara è più l’insegnante degli scolari». È solo uno dei più toccanti passaggi del libro Giorgio Caproni, Registri di classe, appena uscito da Garzanti per le cure di Nina Quarenghi. In questo affascinante volume la Quarenghi, a sua volta insegnante, ha raccolto e fedelmente trascritto i registri compilati da Caproni nella sua lunga carriera di maestro elementare. Ad arricchirli, fotografie ormai ingiallite dal tempo, divertenti testimonianze dei suoi alunni (come il racconto del pollo vivo che un padre volle regalare al maestro per Natale), commoventi ricordi dei suoi figli, oggi ottantenni, Silvana e Attilio Mauro (come quello dei bambini che all’uscita da scuola lo seguivano come fosse il pifferaio magico).
Il libro ripercorre tutte quelle tappe della vita destinate a rimanere in ombra nella sua biografia di grande poeta del Novecento: dai primi incarichi in Liguria (dove Caproni, nato a Livorno nel 1912, viveva da quando aveva dieci anni) e in provincia di Pavia, fino al trasferimento a Roma come maestro di «prima categoria», fra il 1935 e il 1942; poi, dopo l’interruzione per l’arruolamento durante la Seconda guerra mondiale e per la partecipazione alla Resistenza in Val Trebbia, il ritorno a Roma e i lunghi anni di insegnamento presso le scuole elementari «Giovanni Pascoli» (1945-1951) e «Francesco Crispi» (1951-1973) – anche se negli ultimi due anni Caproni ebbe un altro incarico, quello di responsabile di un progetto legato alla poesia, svolto occasionalmente anche in altre scuole. Attraverso le annotazioni prese ogni anno dal maestro sui suoi registri personali scorrono veloci davanti agli occhi del lettore le varie trasformazioni storiche, sociali e culturali del Paese. «21 aprile. Prendo spunto da questa data per cominciare a preparare, fin da adesso, i miei scolaretti alla celebrazione dell’Impero» (p. 73). Se,conoscendo l’ antifascismo di Caproni, che fu pure partigiano, stupisce trovare nei suoi primi registri di fine anni Trenta note come queste, così ossequiose dell’ideologia vigente, non si può ignorare che nella scuola fascista i maestri erano sottoposti a un rigido controllo da parte del regime. Ma la realtà del suo insegnamento emerge in una luce diversa nella testimonianza di una sua alunna di Arenzano: «Nella foto di classe io sono l’ultima “piccola italiana” (ahimè) a destra. (A tal proposito, Caproni non ci ha mai fatto fare il saluto fascista!)» (p. 68). È invece soprattutto dalla registrazione delle condizioni sociali della maggior parte dei suoi allievi che risultano le difficoltà del dopoguerra: orfani o sfollati di guerra, figli di disoccupati o di umili lavoratori nella dura ricostruzione sulle macerie del conflitto. La predilezione di Caproni per i più fragili e disagiati continuò fino al suo pensionamento. E anche quando, a distanza di anni, gli si chiedeva di raccontare del suo lavoro, il suo ricordo tornava sempre ai trovatelli: «Quei poveri figli di nessuno, chiamati bastardi, venivano messi tre o quattro per classe; ma la cosa triste, pienamente razzista, era che dovevano indossare un grembiule nero, mentre tutti gli altri l’avevano blu… E quando gli altri tiravano fuori una ricca colazione, loro avevano soltanto una “rosetta”, cioè un panino senza niente. Si vedeva che si sentivano esclusi, umiliati […]. Andai dal direttore e gli dissi: “Li dia tutti a me i trovatelli!”. Rispose che non si poteva, che bisognava tenerli mescolati. “Facciamo un esperimento”, insistei. Me lo concedette. […] Quei bambini […] mi adoravano. Io ero per loro il padre, il fratello, l’amico» (p. 134). Per gli anni Cinquanta e Sessanta, accanto ai riferimenti alle malattie (le assenze per l’epidemia di asiatica nel 1957 o per la vaccinazione contro la poliomielite) non mancano quelli al boom economico: il fervore edilizio, che riempiva Roma di palazzine e i fogli degli scolari di cantieri e di ruspe, o la diffusione dell’automobile. Ma anche la massificazione dovuta ai fumetti, al cinema e alla televisione: «Quand’io ero piccolo, ogni bambino s’era creato il “suo” Pinocchio. Oggi c’è un “Pinoc- chio eguale per tutti” dopo i cartoni animati di Walt Disney» (pp. 261-262).
Ma a stupire di più è forse il fatto che Caproni, nonostante fosse un poeta affermato e avrebbe per questo potuto ottenere un impiego meno faticoso e più remunerativo presso il Ministero dell’Istruzione, non solo non volle abbandonare i suoi bambini, ma non smise mai di dedicarsi a loro anima e corpo, cercando sempre strategie diverse per coinvolgerli: come quella, del tutto fantasiosa e non ispirata a nessuna teoria pedagogica, di portare in classe un trenino elettrico: da metafora ricorrente nei suoi versi, il treno diventava così uno strumento per insegnare matematica, geografia, geometria e persino educazione civica, dato che ogni bambino aveva un compito diverso (capotreno, bigliettaio, capostazione). Nulla sapevano i suoi alunni della sua ‘doppia identità’. Almeno fino al giorno in cui la RAI trasmise una sua intervista, subito dopo il conseguimento del prestigioso premio Viareggio nel 1959: «ma ho subito smontato i miei piccoli… ammiratori: “Sono il vostro maestro, e voletemi bene come tale”. […] Mi sono accorto di quanto poco siamo stimati noi maestri elementari proprio grazie ai miei… successi letterari. L’Europeo in prima fila s’è chiesto come mai io, nonostante tutto, faccio il maestrino di scuola. Come se fare il “maestrino di scuola” fosse un “mestieraccio” e comunque fosse più facile che “fare” il poeta» (p. 209). Ed è infine lo stesso Caproni, in un’intervista, a raccontare di un suo ex alunno diventato macchinista nelle FF.SS. che, incontrandolo a distanza di anni, gli disse: «Signor maestro, lei è certamente un bravo scrittore. Ma quello che ha fatto per noi vale mille volte di più» (p. 87).☺

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