Morire di lavoro
Di lavoro si muore. Si moriva e si continua a morire. Una piaga che non sembra avere fine per la quale la nostra regione ha sempre pagato un tributo altissimo.
I numeri a livello nazionale sono sconcertanti: in Italia, solo nei primi sei mesi del 2021, l’INAIL ha censito 538 morti bianche, in media tre al giorno: sono meno rispetto al 2020, ma gli incidenti sono aumentati dell’8,9%. Poniamo un attimo pero’ l’attenzione sui dati evidenziati appena oltre. Le denunce di incidente mortale sono diminuite del 5,61% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con una classifica regionale guidata dal Trentino Alto Adige, dove si verificano in media 2.087 infortuni ogni 100.000 abitanti ogni semestre ed il Molise che con il numero di 794 si colloca appena sotto alla soglia dei 1.000 infortuni. La classifica cambia notevolmente se si considerano invece le sole denunce per incidenti mortali avvenuti nel primo semestre 2021 ogni 100.000 occupati. A guidarla, purtroppo, è proprio la nostra regione con 12 denunce, più del doppio rispetto all’Abruzzo (5) che segue a ruota, poi Puglia e Basilicata (4), solo per citare i dati più rilevanti.
Una tematica, lo ripetiamo, che non ammette più indugi e sulla quale, ancora una volta, politica e datori di lavoro continuano ad essere assenti. Muoiono e si infortunano italiani ed immigrati, senza distinzione. Accade oggi, nell’anno 2021, come trenta, cinquanta, cento anni fa. Una storia che si ripete anno dopo anno, purtroppo.
Un tempo gli immigrati eravamo noi, adesso sono gli altri. In terra come in mare, viaggi senza fine con la paura di non arrivare mai. Di morire. Poi i disastri, le tragedie dei lavoratori: gli incendi nelle fabbriche americane, o nelle miniere. Come a Monongah e Dawson, incidenti ancora più gravi dal punto di vista numerico della tragedia di Marcinelle. Marcinelle appunto. Ogni anno, ad agosto e sempre, il ricordo vive nella mente di ognuno di noi, degli italiani e dei molisani in particolare, partiti dalla terra natìa per un viaggio che sembrava non finire mai ed una famiglia a casa che aspettava. Quella mattina dell’8 agosto 1956, esattamente 65 anni fa, c’erano ben poche garanzie di sicurezza in quella miniera di carbone a Bois du Cazier, in Belgio, nei pressi di Charleroi. Un incendio causato dalla combustione d’olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica riempì di fumo tutto l’impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone, operai e minatori: di questi, 136 erano immigrati italiani, di cui ben 7 erano molisani. Ferrazzano pagò il tributo più alto, con tre dei sette morti. Emigrati in Belgio in cerca di lavoro e di fortuna, trovarono la morte a 975 metri di profondità in un tragico incendio che trasformò la miniera in una tomba. Solo nel recente 2005 l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferì la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla memoria dei minatori italiani, a testimonianza del fatto che, se il ricordo non muore, il tributo al sacrificio che fu tardò invece ad arrivare. Oggi, anche per quei sette nostri corregionali che pagarono con la vita, Bois du Cazier è stato trasformato in un museo dove ogni anno si commemorano le vittime di quella tragedia mai dimenticata.
Chi partiva verso il Nord dell’Europa, in cerca di fortuna e di un futuro migliore, era costretto a condizioni di vita al limite della sopportazione e a discriminazioni razziali senza precedenti. Il viaggio verso il Belgio era pagato dallo Stato italiano, in virtù del patto bilaterale concluso con il Belgio nel 1946. L’Italia si impegnava ad avviare 5.000 lavoratori l’anno nelle miniere belghe. Il Belgio corrispondeva al nostro Paese una quantità di carbone per le acciaierie.
Non bisogna dimenticare la sofferenza a cui furono sottoposti italiani e molisani all’estero, soprattutto quando ci approcciamo agli immigrati oggi, con cui camminiamo fianco a fianco ogni giorno.
Ricorda Gian Antonio Stella, nel suo libro L’orda, consigliato soprattutto in questi tempi di razzismi emergenti causati dall’ignoranza e da chi alimenta la pratica politica dello straniero come diverso: “Quando gli albanesi eravamo noi ed espatriavamo clandestini a centinaia di migliaia oltre le Alpi e gli oceani, dormivamo a turno in quattro nello stesso fetido letto, eravamo così sporchi che a Basilea ci era interdetta la sala d’aspetto di terza classe. Quando ci accusavano di essere tutti criminali, ci rinfacciavano di avere esportato la mafia e ci ricordavano che quasi la metà dei detenuti stranieri di New York era italiana”.
Li chiamavano “Macaroni”, i mangia-pasta, “Spaghettifresser” in Germania, mangia-spaghetti: ma con il verbo che si utilizza per gli animali (fressen invece di essen). E ancora “Ithaker”, giramondo senza patria, “Greaseball”, palla di grasso o testa unta, “Bolanderschlugger”, mangia-polenta, “Bat” come pipistrello. Ed ancora le vignette, i titoli dei quotidiani: “La discarica senza legge”, scriveva il Fudge. “Occhio zio Sam, sbarcano i sorci: l’invasione giornaliera dei nuovi immigrati direttamente dai bassifondi d’Europa”. “Nuova patria, vecchi mestieri”, scriveva invece Harper’s Weekly, con riferimento agli italiani che mendicavano per le strade.
Quando i clandestini eravamo noi, e nemmeno troppi anni fa. Mezzo secolo, sessant’anni o poco più: nel 1963 ancora si pubblicavano le fotografie di lunghe file di italiani che passavano clandestinamente il confine con la Francia.
A volte basterebbe guardare appena indietro, alle nostre spalle: la memoria troppo corta non fa bene a nessuno. Se tuttavia ogni anno è necessario celebrare anniversari, soprattutto per ricordare e rinnovare la memoria, è segno che qualcosa nel filo del racconto verso le future generazioni, si è interrotto. Rinnoviamo tuttavia la fiducia nel mondo che verrà.☺
