
Nessuno può salvarsi da solo
Anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. S. Paolo esortava costantemente la Comunità di Tessalonica a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: “Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri” (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie.
Spinti nel vortice di sfide improvvise e in una situazione che non era del tutto chiara neanche dal punto di vista scientifico, il mondo della sanità si è mobilitato per lenire il dolore di tanti e per cercare di porvi rimedio; così come le Autorità politiche, che hanno dovuto adottare notevoli misure in termini di organizzazione e gestione dell’emergenza. Il Covid-19 ha provocato, anche con effetti a lungo termine, un malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti non trascurabili, alimentati dai lunghi periodi di isolamento e da diverse limitazioni di libertà. La pandemia ha toccato alcuni nervi scoperti dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze. Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine sempre più diffusa nelle nostre società, in particolare quella dei più deboli e dei poveri. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di lavoratori informali in molte parti del mondo, rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento. Raramente gli individui e la società progrediscono in situazioni che generano un tale senso di sconfitta e amarezza: esso infatti indebolisce gli sforzi spesi per la pace e provoca conflitti sociali, frustrazioni e violenze di vario genere. In questo senso, la pandemia sembra aver sconvolto anche le zone più pacifiche del nostro mondo, facendo emergere innumerevoli fragilità.
Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità. Dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori. Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo? La più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo.
Da tale esperienza è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”. Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali.
La sfida della guerra
Al tempo stesso una nuova terribile sciagura si è abbattuta sull’umanità, un altro flagello: un’ulteriore guerra, guidata da scelte umane colpevoli. La guerra in Ucraina miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Il virus della guerra è più difficile da sconfiggere, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano. Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale. Non possiamo perseguire la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune. Le tante crisi morali, sociali, politiche ed economiche che stiamo vivendo sono tutte interconnesse, e quelli che guardiamo come singoli problemi sono in realtà uno la causa o la conseguenza dell’altro. E allora, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione. Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce. Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace.
Il messaggio di papa Francesco ci racconta anche qual è il problema fondamentale che la chiesa si trova di fronte: la ricomposizione dell’unità del mondo, nella fedeltà al piano di Dio. La visione con cui si misura Francesco è diversa da quella di Paolo VI e in seguito di Giovanni Paolo II. Un mondo scisso tra Oriente e Occidente, tra capitalismo e comunismo, una divisione ideologica che non ignorava l’unità del destino tanto è vero che l’evento nucleare come risoluzione del conflitto era avvertito come catastrofico per tutti e coincidente con la fine della civiltà umana.
Oggi invece la divisione è antropologica, suppone che l’umanità sia inevitabilmente spartita in vincenti e perduti, prescelti e scartati, necessari ed esuberi: una diversità di destino per cui la salvezza degli uni comporta la catastrofe degli altri. Non ci sono coppie di nemici, ma tutti sono potenzialmente il nemico. Non ci sono più singole guerre, ma un’unica guerra dai suoi artefici vissuta come perpetua e infinita. Per farsi artefice delle ricomposizioni e segno e strumento di unità la chiesa deve salvaguardare la propria autonomia dai poteri mondani e annunciare che Dio ama tutti gli uomini e vuole che tutti siano salvi. È un Dio che deve saper cercare perché, a volte, è nascosto anche a lei.☺