Olocene o antropocene?
di Andrea Barsotti
L’homo sapiens è un individuo molto complicato. Inserito in un ecosistema equilibrato, si è evoluto in armonia sino a quando ha cominciato a perdere i modi naturali. Dai 2.000.000 di anni fa dell’homo habilis ai 200.000 anni fa con l’avvento dell’homo sapiens, il tempo è trascorso lentamente e naturalmente, ma i segni della particolarità della specie umana erano già allora evidenti.
L’embrione del progressivo sviluppo è rintracciabile migliaia di anni fa, quando i nostri antenati hanno iniziato a costruire strumenti per la caccia e per l’agricoltura. Invece di continuare ad usare denti e dita per strappare e separare cibo o oggetti, hanno costruito utensili per facilitarsi il compito e rendere più proficue le operazioni. Operazioni che, tra l’altro, hanno aiutato a difendersi, a nutrirsi e a primeggiare sulle altre specie. Soprattutto in agricoltura la distanza con la natura si è fatta sempre più rilevante. Con l’abbandono dello sfruttamento della produzione naturale, è stata data priorità alla conquista di spazi, distruggendo le biodiversità locali a favore di coltivazioni sempre più intensive.
In ogni manufatto costruito dall’ uomo, o meglio in tutte le intenzioni ed opere dell’uomo, troviamo sempre due facce della stessa medaglia: una positiva ed un’altra negativa. Possiamo ricordare la scena di Stanley Kubrick nel film 2001 Odissea nello spazio: la scimmia che brandisce un osso e lo usa per frammentare delle ossa e renderle poltiglia, ma che nello stesso tempo si accorge di avere in mano un’arma per imporre la sua presenza: stesso oggetto, duplice impiego. Già da allora l’uomo è stato chiamato a scegliere come proporsi.
Ritroviamo questo in ogni aspetto della vita umana. L’umanizzazione delle coltivazioni e degli animali, e la continua trasformazione del territorio, sono stati gli aspetti più rilevanti per la metamorfosi della vita umana. Uno studio, condotto da un gruppo di ricercatori israeliani su Nature nel 2020, ha calcolato che la massa antropogenica, cioè oggetti, manufatti costruiti dall’uomo, comprese strade ed edifici, ha raggiunto un peso definito in 1.100 miliardi di tonnellate, pareggiando il peso della biomassa, cioè l’insieme degli organismi viventi, vegetali e animali, presenti sulla Terra. Per rendere meglio l’idea farò due esempi:
1. la massa antropogenica totale presente a New York pesa quanto la biomassa di tutti i pesci del pianeta;
2. la Tour Eiffel pesa quanto 10.000 rinoceronti bianchi.
Sorgono delle domande:
– il nostro pianeta, con il suo esiguo strato di biosfera, può accogliere uno sviluppo senza limiti?
– forse la stessa costituzione limitata del pianeta che ci ospita, può far intravedere dei limiti fisici per la sua alterazione?
– quanto siamo vicini al limite di sopportazione delle alterazioni da noi prodotte?
La grande quantità raggiunta dalla tecnosfera ed il crescente numero di esseri umani hanno sviluppato a dismisura l’insensibilità rivolta all’ambiente naturale. La nostra specie ha vissuto ere con fasi diverse di regressione ed espansione. Circa 900.000 anni fa erano rimasti solo 1.280 individui specie homo. Nel tempo, circa 40.000 anni fa, l’homo si è espanso sino a raggiungere 5 specie diverse. Condivisione e resilienza; nuclei familiari formati da specie homo diverse, con figli “ibridi” sani ed integrati nella società di allora; spostamenti da un continente all’altro hanno evoluto, fortificato e selezionato le specie. Nel tempo sopravviverà solo l’homo sapiens, ma non per l’eliminazione fisica delle altre specie, solo per un adattamento e per caratteristiche che l’hanno favorita rispetto alle altre. Oggi, in considerazione dei preconcetti sviluppati, si avrebbero molte più difficoltà d’integrazione di allora: basti pensare alle differenze di genere, alle resistenze alla migrazione, alle eccezioni sulle dignità umane.
Tutto ciò ci porta a considerare che abbiamo perso il contatto con la natura, che ci siamo distanziati dalle nostre origini e da ciò che era naturale soprattutto per la nostra specie. Ci siamo così allontanati che abbiamo perso il senso del possibile e del non possibile, di ciò che è buono per la collettività umana e di ciò che non lo è.
Abbiamo perso il senso pratico di sopravvivenza della specie, abbassando lo sguardo verso il futuro, abbreviando la linea dell’orizzonte. Non ci riguarda quello che succederà ai nostri nipoti, l’importante è “speriamo che me la cavo”. È come se vivendo in un appartamento e desiderando nuovi spazi procedessimo alla demolizione dei muri interni, continuando a vivere tra la polvere e le macerie, ma fieri di aver conquistato altri metri, seppur a scapito della nostra salute.
Siamo bombardati da dati provenienti da convegni, studi di settore, previsioni metereologiche, documentazioni sul riscaldamento globale, ma i negazionisti hanno una voce più chiassosa e coprono le preoccupazioni per la sopravvivenza della specie. Il motto è non arrenderci alla cecità alimentata dagli interessi di parte, ma cercar di evidenziare i danni provocati dall’economia lineare basata sull’estrazione, produzione, consumo, e smaltimento.
Vitale è optare per un’economia più simile ai ritmi naturali, che preveda un modello circolare rivolto più al risparmio che al consumo, più alla conservazione che allo sperpero di risorse; e trattare gli scarti non come rifiuti, ma come materiale da reinserire nella filiera del recupero e del riutilizzo. Per riuscire nell’ intento, come dice lo scrittore Rossano Ercolini, nel libro Noi siamo oceano, “…bisogna fare tanta formazione, informazione e diffondere buonumore. L’energia positiva, infatti, è contagiosa. …facciamo sempre più squadra… quella in gioco è la partita della vita. E la dobbiamo vincere”.
Di questo e di altro parleremo con lo scrittore Ercolini a Petacciato il 16 giugno prossimo.☺
