Posso fare una domanda?
La campagna governativa Carrello Tricolore, lanciata con enfasi e che dovrebbe garantire ingenti risparmi alle bambine che acquistano una singola pesca sfusa, ma solo se la comperano alla Esseluuuunga (forse confondo? Lo ammetto: non seguo con attenzione le esternazioni social della Presidente del Consiglio) mi ha posto un interrogativo.
Il prezzo di vendita delle merci è stabilito da chi le merci le mette in vendita, e, se le vuoi le paghi quanto richiesto, altrimenti, se il prezzo lo trovi salato, le lasci dove sono. Legge della domanda e dell’ offerta, dice il marketing.
L’unica merce della quale a stabilire il prezzo di vendita non è colui che la vende e che non ha voce in capitolo, ma chi l’acquista, è la forza lavoro salariata, le donne e gli uomini un tanto all’ora, neanche il salario minimo. Ne deriva che chi compera il lavoro e ne stabilisce la paga è lo stesso che determina il prezzo delle merci che il lavoratore è costretto ad acquistare. La domanda è: perché?
Ma non vale dare una risposta scontata, da stupidità umana o da ChatGPT. Perché il prezzo del lavoro non è determinato da chi la merce forza lavoro è costretto a venderla? Mi paghi quello che ti chiedo sulla base della ricchezza che produco e vedi che nei carrelli a colori ci mettiamo i Meloni. Sessant’anni fa Ugo Gregoretti, nel suo film Omicron, che ho già citato in un precedente intervento, ha sostenuto che “i padroni non ti danno la paga. Ti prestano i soldi per farti comperare quello che vogliono loro”. Nel 1963 qualcuno già l’aveva capito.
Sarebbe questa una saggia risposta al mio perché, ma non è quella che ci viene dal Governo, dal Parlamento, dalle Istituzioni tutte, dai Sindacati, persino dalla Carta Costituzionale e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. È così e basta. Le persone possono essere merce molto sottopagata, forse perché, prima e sopra Governi e Carte, comanda il Mercato?
Il mercato un po’ lo conosco, non fosse altro perché, dei miei oltre 50 anni di lavoro, quasi 40 li ho passati a concepire merci, pubblicità e molto di quello che intorno alle merci si dipana. Avevo pensato, ingenuamente, che a posizionarsi all’origine delle merci avrebbe permesso di cambiare qualcosa. Mi sbagliavo di grosso.
Cosa mettiamo nel carrello? Essere merce non è uno stato continuo ma una condizione breve, prioritaria ma transitoria degli oggetti. La maggior parte delle persone ritiene – è così che ce la raccontano – che gli oggetti che acquistiamo per la quotidianità e per gli infiniti bisogni che caratterizzano il nostro modo di vivere, siano il risultato dell’incontro fra la domanda e l’offerta, fra le aspirazioni dei consumatori e la capacità dei produttori di soddisfarne sempre meglio i desideri. È idea comune che ciò che arriva al mercato sia la massima espressione delle capacità tecniche e produttive del momento, la migliore soluzione possibile, determinata dall’affinamento e dal miglioramento progressivo della società e dell’industria, tesa all’eccellenza prestazionale e costruttiva. Niente di meno vero.
Per fare qualche esempio: il prezzo della gran parte dei prodotti dolciari per la colazione o la merenda, quelli famosi, che mettiamo nel carrello tricolore, è dato per meno del trenta percento dalla parte edibile (e di scarsa qualità) e, per dirla in italiano, mangiabile, mentre l’oltre settanta percento è dato dalla confezione, dal cucchiaino, dalla sorpresina, dall’espositore, dall’ imballo multiplo, dall’imballo logistico. In molte delle merci di largo consumo quali i cosmetici, i detersivi, le bibite, le acque, il caffè (20-25 Euro al kg nel sacchetto, 70-80 Euro al kg nelle capsule) il vero prodotto è l’imballo, la confezione preferibilmente in plastica, mentre il contenuto nominale è solo un di più.
Mi è accaduto molto spesso di progettare il prodotto insieme al suo imballo. Sempre la confezione illustra le qualità mirabolanti del contenuto, ti dice quanto sei perspicace e infallibile nello scegliere il meglio. Nulla o ben poco dice del reale contenuto, del costo sociale, ambientale, energetico, di quanto viene sottratto, di quanto viene rapinato nei Paesi poveri, di quanto quell’oggetto così composto sia causa delle migrazioni e dei disastri dovuti ai mutamenti climatici indotti. Arrivi a casa, butti nella spazzatura i due terzi di ciò che hai pagato, inservibile e ancora intatto, ti resta ben poco da consumare. A questo si somma la pubblicità martellante, che non mostra la merce ma il consumatore nell’atto di cogliere i magnifici benefici del consumo, ballando.
Allora cosa mettiamo nel Carrello Tricolore? E cosa, invece, potremmo metterci se si pensasse realmente in termini di Economia Umana e non di finanza e di arricchimento sempre maggiore per sempre più pochi?
Di domande ne ho fatte più d’una. Le risposte forse s’intuiscono. Ma il tempo del cambiamento e la possibilità di invertire la rotta (con questi governi?), mi pare ormai scaduto, e da tempo. ☺