rintracciare l’alterità
7 Maggio 2017
La Fonte (351 articles)
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rintracciare l’alterità

Gramsci dà un numero imprecisato di definizioni di cultura. Di certo, il suo concetto di cultura diverge totalmente dalla concezione classica dell’antropologia che la vede come una sfera netta e statica, identificabile con determinati gruppi sociali: le “concezioni del mondo” sono condizionate da una serie di processi storici, non sono definibili e delimitabili nello spazio e nel tempo. Il concetto di cultura è strettamente legato a quello di classe sociale, si colloca nel continuum egemonia/subalternità. Le due non-categorie evidenziano il rapporto tra potere e cultura: da una parte vi sono i rapporti di potere che preservano la condizione di subalternità, dall’altro le contraddizioni che possono portare al superamento della condizione di subordinazione.

A partire dall’articolo sul “mondo popolare subalterno”, scritto da De Martino nel 1949 su Società, Gramsci fa il suo ingresso nel dibattito antropologico italiano. Soprattutto la tematica del “folclore progressivo” caratterizza questa svolta in termini politici: si tratta di un folclore orientato politicamente, legato al processo di emancipazione politica e sociale delle classi subalterne che porterà ad un “nuovo umanesimo”.

Dalla seconda metà degli anni ’50 la tesi del folclore progressivo converge, ad opera di alcune componenti del dibattito, verso un’emancipazione culturale fondata sulla valorizzazione del patrimonio di forme autonome della cultura popolare.

Il contributo di Alberto Cirese, che aveva a lungo lavorato sui testi gramsciani e intendeva rifondare la tradizione italiana di studi folclorici, rintracciava un’organicità dei gruppi subalterni, all’interno delle complesse e stratificate società occidentali, a partire dai numerosi dislivelli culturali entro cui erano riconoscibili spazi di alterità: la cultura è un’ “unità di fatto” composta da autonome forme socio-antropologiche.

I prodotti culturali per Gramsci sono una miscela di elementi nazionali e folclorici e proprio le proporzioni dell’uno e dell’altro interessano un’analisi storica, sociale e politica: ciò che deve emergere è la dialettica tra culture subalterne e cultura egemone. L’interpretazione di Cirese, invece, si basa su specifiche condizioni di isolamento dei gruppi sociali in cui di fatto queste miscele si polarizzano sull’uno o sull’altro versante generando organicità e consentendo così un’analisi “naturalistica” ed essenzialista da parte di una specifica disciplina. È il caso della cultura contadina il cui estremo isolamento, inteso come esclusione dall’istruzione e rifiuto della cultura dominante, consente un’analisi di oggetti folclorici (i canti popolari, le fiabe, le credenze) come propri di una cultura subalterna. Dalla seconda metà degli anni ’70, la scomparsa di forme di isolamento “pure”, dati i caratteri nazionali dei nuovi fenomeni e i processi di secolarizzazione e omogeneizzazione agiti attraverso la televisione e l’istruzione di massa, hanno indebolito fortemente l’oggetto di studio della demologia generando una crisi epistemologica non ancora risolta.

Per riflettere sulle prospettive possibili nel nostro contemporaneo di una ricerca etnografica, che rimetta al centro le intuizioni gramsciane e demartiniane, è necessario ricercare dove e come i rapporti egemonici oggi producano subalternità, quali forme di cultura subalterna riproducano questa condizione e quali invece hanno un potenziale per ribaltarla. È certo che le funzioni egemoniche non hanno smesso di articolarsi nel quotidiano e di esistere nei territori, quindi, è certo che la condizione di subalternità continua a caratterizzare la vita di quei molti che sono ancora “ai margini della storia” e dei centri-vetrina delle grandi città del nostro Paese. Non è affatto semplice leggere dentro le pieghe del presente: ci troviamo di fronte ad una disgregazione sempre maggiore dei gruppi sociali, ad una atomizzazione delle relazioni e ad una maggiore eterogeneità delle forme di subordinazione culturale, politica, economica e sociale.

Il capitalismo è in una fase diversa da quella che Gramsci viveva, ma ciò non può farci arretrare di fronte all’importante compito che l’antropologia deve assumere: rintracciare l’alterità dentro la nostra società, cogliere le caratteristiche dei processi che la producono e riproducono e ritrovare, nelle crepe dell’omogeneizzazione culturale ad opera del mainstream, uno spazio di riflessione e pratica su cosa voglia dire egemonia culturale in contesti di emarginazione urbana e sociale, di disuguaglianza economica e di alterità culturale. Soprattutto, a mio parere, bisogna ricreare quella miscela innovatrice e rifondatrice che de Martino aveva saputo articolare nella transdisciplinarità del suo approccio e nelle forti spinte politicamente determinate del suo metodo e del suo “campo”.

Il metodo di Gramsci era “partire dalla realtà”, osservare i processi, le trasformazioni e le staticità da vicino, nei differenti contesti e a partire da diverse condizioni, perché conoscere il proprio tempo è l’unico modo per illuminare la strada.☺

 

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